Morte a Venezia - Considerazioni finali
Considerazioni finali su un'edizione tutt'altro che riuscita e su un festival che rischia di perdere la sua identità
Non poteva essere altrimenti. La settantunesima edizione del festival di Venezia si è conclusa con la vittoria di A Pigeon Set on a Branch Reflecting on Existence dello svedese Roy Andersson, alfiere di un cinema d’autore europeo completamente chiuso nella sua rigida impostazione formale e filosofica (purtroppo dal fiato cortissimo), e incapace di istituire un qualsiasi dialogo con gli spettatori. Intediamoci: Andersson è un cineasta importante che merita rispetto e ammirazione. Il suo lavoro sulla composizione delle inquadrature e sulla profondità di campo è impressionante. Ma ci domandiamo: ha senso premiare con il massimo riconoscimento un cinema così ancorato al ventesimo secolo? A questo punto dovremmo interrogarci sulla funzione dei festival e dei premi. I leoni servono a certificare il presunto miglior titolo tra quelli in gara o piuttosto ad indicare una via, a definire lo stato delle cose del cinema contemporaneo? Il discusso Leone D’oro dell’anno scorso a Sacro Gra, più o meno condivisibile, ha avuto se non altro il merito di fotografare una tendenza sempre più forte nella settima arte, ovvero il consolidamento di quell’insieme di forme, pratiche e stili che possiamo ricondurre sotto il nome di cinema del reale. Quest’anno è accaduto l’esatto contrario: a fronte di opere ancora capaci di sconvolgerci con la loro carica dirompente si è preferito puntare su un’opera paradossalmente più rassicurante. Forse, sembra suggerirci il verdetto, in questo tempo di crisi in cui si dibatte sull’incerto futuro del cinema i giurati hanno preferito un’opera che, malgrado il suo nichilismo di fondo, guarda al cinema con la stessa sicurezza e la stessa (miope?) fiducia di sempre.
Una cosa è certa: quest’anno ha vinto il film che più di tutti rispecchiava la linea del direttore artistico Alberto Barbera, da sempre “sostenitore” di un cinema colto e accademico che predilige il coinvolgimento intellettuale a quello viscerale delle emozioni. Più testa che cuore: potrebbe essere un titolo perfetto per riassumere il programma di questa deludente edizione nella quale l’Europa l’ha fatta da padrone in tutte le sezioni e anche nel palmares, che ha visto ben sei premi su otto andare a produzioni del vecchio continente. In fondo i premi non fanno che certificare un orientamento neanche troppo nascosto: con Barbera la geografia del festival si è ristretta clamorosamente. Se si escludono sporadiche “sortite” più o meno convincenti nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, nel programma di Venezia non sembra esserci molto spazio per l’America Latina e l’ Estremo Oriente, ancora una volta rappresentato da uno sparuto gruppo di nomi noti (Shinya Tsukamoto, Ann Hui, Hong Sang-soo, Im Kwon Taek, Peter Chan, ecc..) relegati perlopiù fuori concorso. In tre anni di lavoro Barbera si è limitato a selezionare cineasti già riconosciuti internazionalmente (nel 2012 Mendoza, Kitano e Kim Ki Duk, nel 2013 Tsai Ming-Liang e Miyazaki, nel 2014 Tsukamoto e Wang Xiaoshuai) senza mai lanciarsi in una scoperta. Una lacuna subito colmata dal Festival di Berlino, che negli ultimi anni ha sottratto a Venezia quello che da sempre è stato uno dei suoi storici primati. Solo per rimanere all’anno scorso nel programma della Berlinale figuravano ben tre cinesi e un giapponese in concorso. E poi altre 31 (!) opere disseminate in tutte le sezioni. Com’è possibile che un festival come Venezia non riesca a scoprire in tre anni neanche un nuovo cineasta orientale? Eppure fu lo stesso Barbera a lanciare durante il suo primo mandato, a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, registi come Jia Zhang Ke e Kim Ki Duk. Qualcosa evidentemente non funziona nel lavoro della commissione di selezione e soprattutto nella linea imposta dal suo direttore. È giusto dare risalto al cinema francese, produttivamente tra i più forti al mondo, ma non ha senso offrire ben quattro posti su venti in competizione. Siamo sicuri che i rapporti di forza tra i paesi siano effettivamente così sbilanciati? Oltretutto tra i quattro francesi in concorso solo due meritavano la selezione. Tanto il film di Xavier Beauvois che quello di Benoit Jacquot sono sembrati innocui e mal riusciti. Che dire poi di tutto quel cinema non riconciliato che fino a qualche anno fa approdava in Orizzonti o, in alcuni casi, persino in concorso? Zero assoluto, tant’è che cineasti del calibro di Lav Diaz e Pedro Costa (entrambi lanciati sulla ribalta internazionale da Venezia) hanno preso la via di Locarno, trionfando con i loro rispettivi film. Per non parlare poi del cinema di genere, quest’anno rappresentato solo dall’indomabile Joe Dante, che con il suo divertente Burying the Ex ha risollevato il morale degli spettatori e degli accreditati, sfiancati da una selezione insufficiente negli esiti artistici – tanti film sono sembrati esili, inconsistenti, prevedibili, aridi – e fin troppo pesante nei contenuti. C’è evidentemente un problema se a conti fatti il film più passionale del programma risulta il favoloso Leopardi di Martone. Senza nulla togliere al film, per noi uno dei più belli del concorso, ci sembra paradossale eleggere un’opera che parla della sfortunata vita del poeta di Recanati come la più ribollente e vitale. È una questione di sguardo naturalmente, e Martone qui dimostra di essere una volta di più uno degli autori più importanti in circolazione. Quanti altri avrebbero avuto il coraggio di misurarsi con un personaggio tanto ingombrante, e di farlo rendendo la sua vita e le sue opere una materia incandescente che arde di amore per il mondo? Ma i meriti del cineasta napoletano non bastano a giustificare tale considerazione, che necessariamente prende in esame la selezione nel suo complesso. Una selezione che come e più dell’anno scorso ci ha raccontato un mondo dilaniato da traumi e conflitti di ogni tipo. Un mondo di uomini soli, di donne maltrattate, di bambini infelici, contesi e malnutriti, di pervertiti, di malati terminali, ecc..Insomma un mondo senza speranza. Com’è dopotutto quello raccontato dal film vincitore: 39 tableaux vivant di desolante alienazione quotidiana, in cui gli uomini sono già morti da un pezzo, anche se non se ne sono accorti. Peccato, perché altrove, sia in concorso che nelle altre sezioni, c’erano film ancora in grado di dire qualcosa di non scontato sul mondo e sul cinema. Pensiamo al bellissimo Pasolini di Ferrara, un’opera notturna e fantasmatica che ha il coraggio di rischiare fino all’ultima inquadratura, e per questo destinata a non essere compresa; oppure allo sconvolgente film bellico di Tsukamoto, Nobi – Fires on the Plain, opera deflagrante di pura messa in scena, o ancora a Tsili di Amos Gitai, Dearest di Peter Chan, Belluscone di Franco Maresco, The Postman’s White Nights di Andrei Konchalovsky. Rari esempi di un cinema lontano da quella medietà d’autore che sembra predominante tanto a Venezia quanto a Cannes. In fondo l’errore più grande che attribuiamo a Barbera è stato di appiattirsi troppo sul modello del Festival francese (restauro di classici al posto di una retrospettiva focalizzata, la normalizzazione di Orizzonti ispirata all’Un Certain Regard, riduzione drastica del numero di film, istituzione del Mercato). Un modello evidentemente irraggiungibile per budget, strutture, mezzi, prestigio. Con il risultato che oggi Venezia appare un festival irrisolto, troppo “piccolo” per ambire alla grandeur francese, troppo grande per ridursi a festival di “ricerca”. Una ricerca tra l’altro solo presunta: basta fare il confronto con il programma di Locarno per rendersene conto. Il rischio, più concreto che mai dopo quest’anno, è che Venezia perda progressivamente sempre più posizioni nello scacchiere dei festival internazionali, fino a diventare un festival di second’ordine, una sorta di reliquia del passato dove i giovani esordienti vanno per essere lanciati, e i grandi autori (magari scartati da Cannes) vanno per accrescere il loro ego. Sia chiaro: non si tratta di fare le vedove di Marco Müller o peggio ancora di invocare una guerra tra festival. Rispettiamo il bon ton istituzionale e la correttezza di Alberto Barbera, ma bisogna correre ai ripari. I segnali allarmanti di quest’ultima edizione (scarsa partecipazione del pubblico e della critica internazionale, qualità medio-bassa delle opere, l’assenza di Hollywood), non vanno assolutamente sottovalutati. Certo, è senza dubbio più facile prendersi gli applausi di una carta stampata sempre più compiacente (ogni riferimento a Paolo Mereghetti e alle sue lodi al festival di ricerca lontano dalle lusinghe hollywoodiane non è affatto casuale), che fare mea culpa, ma così facendo non si potranno che ripetere gli errori del passato. E sinceramente non sappiamo per quanto ancora Venezia possa permetterseli. Insomma: urge un netto cambio di direzione. L’anno prossimo sarà l’ultimo di Alberto Barbera, dopo ci sarà il vuoto assoluto. Il timore che qualcuno ben peggiore del pur bravo critico piemontese possa prenderne il posto è più concreto che mai in un paese dove la carica di direttore del festival è scelta direttamente dalla politica. In questa sede ci piacerebbe vedere una figura che possa dare un segno di forte discontinuità. Il nome secondo noi più appropriato è quello di Giulia D’Agnolo Vallan, professionista stimata da tutto l’ambiente e grande esperta di cinema americano. Statene certi: non accadrà mai.