Mulberry Street
Con una buona dose di consapevolezza espressiva, Jim Mickle pone le basi per il suo immaginario apocalittico in un horror politico e sfacciatamente artigianale
È un compendio delle paure di inizio millennio Mulberry Street, piccolo, denso e metaforico horror indipendente del 2006, firmato dall’allora esordiente Jim Mickle. Un orrore strisciante e inesorabile, quello che il filmmaker statunitense immagina con occhio critico e provocatorio, nascosto all’interno di una palazzina fatiscente nel cuore di una New York post 11 settembre sporca e impoverita, disorientata e smarrita.
In un grezzo contenitore di quelle allucinazioni e degenerazioni che, in maniera più compiuta e matura, ne caratterizzeranno lo stile e la poetica a venire, il futuro regista di Cold in July mette in scena un prodotto solido e inventivo che, rimaneggiando tematiche e suggestioni vecchie di decenni, fotografa un presente mai così cupo, dando voce all’ossessione e alla disperazione di una società costantemente sull’orlo del crollo nervoso, perduta nel terrore di guerre, attentati ed epidemie.
É proprio un’epidemia quella che si abbatte, con l’irruenza di un indemoniato, nel quartiere di Little Italy. Un Male che non potrebbe che venire dalle fogne, dal degrado di una civiltà allo sbando, dove sono i ratti a farsi portatori di uno strano morbo in grado di mutare gli uomini in zombie rabbiosi e cannibali, e dove a una manciata di emarginati è data, forse, l’ultima possibilità di riscatto.
(Anti)eroi improbabili (uno dei punti fermi nelle storie di ordinaria disperazione di Mickle) come l’ex pugile Clutch (l’inseparabile Nick Damici, interprete e co-sceneggiatore di tutti i film del regista) e la disastrata teoria di personaggi che, come lui, abita il vecchio stabile su Mulberry Street, da una drag queen afroamericana a un vecchio reduce della Seconda Guerra Mondiale, passando per madri single della porta accanto e adolescenti problematici, ben presto unico argine a una minaccia pandemica destinata a propagarsi in tutta la città.
Sebbene a prima vista possa sembrarlo, Mulberry Street, nella sua rozza, analogica confezione da b movie, non è un semplice horror a basso costo sul tema, abusatissimo, del contagio, né, tanto meno, un banale trionfo citazionista e derivativo popolato da macchiette o situazioni ai limiti del ridicolo. C’è di più in questo film claustrofobico che sa innalzare un cadente caseggiato e i pochi isolati che lo circondano (insieme alla realtà sociale che lì vi dimora) a microcosmo opprimente e apocalittico.
Tra le mura dei palazzi e per le vie del quartiere, tra l’incubo d’invasione e il dramma d’assedio, Mickle, con una ricercatezza formale e una consapevolezza espressiva notevoli, dimostra la sua abilità nel disegnare, con pochi tratti e macchina in spalla (impossibile non pensare all’imminente fenomeno Rec, ma anche all’imprescindibile Cloverfield), un senso di minaccia crescente, di pericolo incombente, conservando una parzialità di sguardo coinvolgente e immersiva.
Mentre un’estetica traballante e avvolgente che strizza l’occhio al found footage incontra un senso mai banale per la messa in quadro e gli sperimentalismi cromatici e visivi sopperiscono egregiamente alla mancanza di mezzi con un sapiente uso di luci e filtri, Mulberry Street, nella sua esibita, compiaciuta e un po’ grossolana artigianalità, passo dopo passo, corpo dopo corpo, finisce col farsi specchio (nemmeno troppo) deformante del mondo stesso e delle sue paure.
Con un insolito gusto per la caratterizzazione dei personaggi e per le storie di vite irrimediabilmente ai margini, con l’abilità nel delineare, con pochi ma significativi elementi, una città e quella società che, con tutte le contraddizioni del caso, le sta dietro, il regista statunitense firma una macabra e pessimista parabola sul contagio che porta impressa su di sé l’immagine di un mondo alla deriva, di un disagio esistenziale e quotidiano in cui la paura e il trauma (emblematico il personaggio della figlia di Clutch, tornata sfigurata dall’Iraq) fanno ormai un tutt’uno con una contemporaneità disperata e cannibale.
Un’opera d’altri tempi, eppure smaccatamente proiettata sul proprio presente, Mulberry Street, politica come un La notte dei morti viventi aggiornato a un mondo di paranoia, paura e miseria, cronaca di un’apocalisse annunciata che con la sua accozzaglia di suggestioni orrorifiche, trovate splatter e un orrore irriducibilmente artigianale che non teme di essere datato, superato, fuori tempo massimo, si dimostra capace di non far perdere mai il ritmo a un’allucinata escalation di rabbiosa devastazione omicida, in un giorno di ordinaria follia come tanti altri.