Stake Land
L'apocalisse di Mickle saccheggia un intero immaginario resuscitando, con brutale genuinità, vampiri e derive distopiche
Certo è facile, quando un giovane autore sforna un prodotto ben al di sopra della media, cedere alla tentazione, conscia o inconscia, di proiettare quell’alone di indubbio mestiere, talento e una considerevole dose di consapevolezza espressiva anche sui tutt’altro che folgoranti lavori precedenti, cercando, col senno di poi, un sentire e una poetica autoriale celata o, magari, del tutto assente.
É più o meno il rischio che inevitabilmente si corre (ri)accostandosi, dopo la rapita visione di Cold in July, alle pellicole d’esordio di Jim Mickle. Tuttavia da qui nasce anche l’insperato spunto per una seconda visione, per un’analisi più attenta e approfondita su prodotti troppo semplicisticamente accantonati come discreti esercizi di stile all’interno delle più consolidate logiche di genere.
Abile artigiano di un horror senza pretese, dopo il buon esordio a base di infezioni e mutanti in Mulberry Street, Mickle nel 2010 si cimenta con l’epopea post-apocalittica, caricandosi sulle spalle un impegnativo viaggio di formazione on the road nel brutale, indipendente e vampiresco Stake Land.
In un’America collassata su sé stessa, dove la quasi totalità della popolazione si è tramutata in un’orda di succhiasangue impazziti mentre i pochi sopravvissuti si difendono malamente in disastrate cittadine e il fanatismo religioso dilaga, il giovane Martin (Connor Paolo) si addentra tra le sue rovine in compagnia dello spietato e ombroso cacciatore di vampiri Mister (Nick Damici, anche co-sceneggiatore), diretto verso Nord, verso la mitica città di New Eden, ultima speranza per un’umanità ormai degenerata.
Cominciando a esplorare dinamiche che diverranno fulcro stesso del suo cinema, Mickle, passo dopo passo, costruisce il dignitoso affresco di un mondo in decomposizione fisica e morale, tra terrore, fanatismo e bestialità, in una pellicola indipendente che porta con sé la graffiante consapevolezza di un universo mitico senza la presunzione di stravolgerlo, snaturarlo, pervertirlo. Tra gli schizzi di una violenza che saccheggia dal western così come dallo splatter, tanto da Mad Max quanto da 28 giorni dopo, attraverso un paesaggio sinistro e corrotto memore delle migliori distopie post-apocalittiche, tra echi degli immancabili Matheson, King, del McCarthy di The Road (e dell’omonima trasposizione cinematografica) e dello stesso Lansdale, Stake Land, lontano dai divertiti e parodistici omaggi al genere (il rimando al contemporaneo Zombieland è inevitabile), rimane coraggiosamente capace di prendersi tremendamente sul serio, nella miglior tradizione dei b-movies cui con tanto, dissimulato compiacimento si ispira.
Grezzo, serioso e spietato, il film di Mickle non ambisce a essere niente più di quello che è: un horror post-apocalittico a basso costo dove gli stilemi tipici del genere si mescolano e rimescolano in una variante che non lascia spazio a dubbi o riflessioni, presa nel vortice ben calibrato di un’azione incalzante dove la violenza esplode improvvisa, capace, quando serve, di attendere e fermarsi famelica tra la falsa e anomala quiete di una regia contemplativa.
Road movie nella forma, western crepuscolare per vocazione (con abbondante strizzata d’occhio all’inarrivabile Carpenter di Vampires, di cui condivide l’insofferenza per le degenerate istituzioni religiose), Stake Land pare legato a un passato mitico, a una tradizione dura a morire, a un terrore analogico che solo le piccole produzioni, i piccoli registi profondamente cinefili, sanno ancora far rivivere.
Anche il costante pericolo dell’eccesso, del senso di un assurdo esasperato, del ridicolo involontario, va allora notevolmente ridimensionandosi nel mondo di Mickle, stemperato da un’irrealtà che si fa epopea fondativa, lontano da qualsiasi facile e sfiancante retorica posticcia da fine del mondo (vedi The Walking Dead).
Mentre la strada si apre su paesaggi sbiaditi da un pervadente presagio di morte, in un dolente e onnipresente pessimismo, resta chiaro quanto Stake Land sia un film a tratti grossolano, rozzo e non poco manieristico, ma altrettanto evidente è la consapevolezza di un horror genuino e godibile, destinato a rimanere uno dei più onesti prodotti del genere negli ultimi anni. E tanto basta.