Mute

Il film sintetico di Duncan Jones per Netflix

Come se volesse creare un’antitesi formale tra il sonoro e il visivo, ogni inquadratura di Mute — il film di Duncan Jones distribuito da Netflix — è particolareggiata, dettagliata ai limiti del maniacale.

Quasi ad indicare le difficoltà di comunicazione (e di comprensione delle trame che gli girano attorno) di Leo, un barista muto a causa di una lacerazione all’altezza della gola subita in infanzia che la madre amish ha deciso di non curare, Jones concepisce il décor del film come un’entità viva e inglobante della narrazione in cui il protagonista si muove a fatica alla ricerca di un oggetto perduto, o meglio, una persona che è quasi un MacGuffin hitchcockiano: Nadiraah, la donna amata, forse rapita, forse scappata. La città dipinta di Mute — molto, forse troppo, simile a quella immaginata da Ridley Scott in Blade Runner — è una Berlino che si compone di pub, insegne al neon, freaks robotici, discoteche. Caotica, perversa, sospettosa, è lei la vera protagonista del film. Alle tinte desaturate delle carnagioni dei suoi abitanti, contrappone le cromie shocking di capelli turchesi, di luci psichedeliche, di vestiti ricchi di paillettes o lustrini. Al mutismo del personaggio interpretato da Alexander Skarsgård contrappone i sintetizzatori sinuosi della musica elettronica e degli inserti di colonna sonora extra diegetica che, come da cliché della fantascienza contemporanea, commentano lo svolgersi delle azioni con lunghe code strascicate e cristalline. Jones lavora sulla scenografia provando ad allontanarsi il più possibile dal giustamente acclamato Moon, in cui il minimalismo estetico del profilmico (dalle movenze del protagonista ai pochi oggetti di scena utilizzati) e un bianco uniforme facevano da padrone di un set asettico, desolato, ponendo sempre attenzione alle pesature compositive, questa volta per accumulo piuttosto che per sottrazione. ll film con Sam Rockwell era una riflessione, anche, sulla paura della replicazione, del sosia, della non - unicità e dello smarrimento dell’identità, e pure in Mute queste fobie umane sembrano convivere in ogni personaggio presentato: gli abitanti di Berlino lottano per affermare esteticamente, fisicamente e moralmente un individualismo che rischia di essere soffocato dalle centinaia e centinaia di vite umane e non umane che sovrappopolano la metropoli: come la sessualità spinta, la violenza gratuita, il travestitismo esasperato, la perversione pedofila. La solitudine che prende corpo nell’ipertrofia visiva, nel rumore costante, nel vociare indistinguibile delle figure che pullulano gli esterni come gli interni.

Mute è un film sintetico che fa significato della non-carnalità dei suoi personaggi freddi e robotici: traditi dalla famiglia, lasciati morire dai propri stessi amici, i protagonisti/antagonisti vagano alla ricerca di un contatto umano che possa riscattare il silenzio di sottofondo che accomuna le loro esistenze; un contatto umano che trova però unico sfogo nell’atto mortifero e nell’atto violento, l’unico strumento di vicinanza possibile tra i colori, gli schermi, le pareti riflettenti e le superfici lisce per cui anche uno sfregio sul collo e la recisione delle corde vocali finiscono per apparire come l’unico atto puro di una civiltà carnale destinata a scomparire.

Autore: Pietro Lafiandra
Pubblicato il 22/04/2018

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