Hebron è la città sacra del Medio Oriente, lo è per i musulmani che ne compongono il nucleo centrale, e lo è per gli ebrei che, in minoranza all’interno della stessa, sono assai più numerosi nel territorio circostante. Hebron è il luogo dei patriarchi, la città con le grotte sacre dove dimorano i corpi santi di Abramo, Isacco, Giacobbe. Letteralmente, in arabo, il suo nome è traducibile in “amico”, un luogo sacro d’incontro di due religioni, di due etnie, per entrambi sacro e per entrambi importante. Ma la traduzione è discordante con la realtà che anima questa città. Hebron è il luogo dell’odio e del rancore, un posto dove i fondamentalismi religiosi traggono la loro linfa vitale, una terra di sputi ed insulti, un inferno senza santi e senza dannati. La discordia cresce tra il filo spinato, un insulto ne chiama un altro, uno sputo è in attesa di riceverne tanti altri, non ci si odia subito, prima si impara a non amare e poi si uccide per un sacro ideale.
Nel 1968, dopo la guerra dei Sei Giorni e la schiacciante vittoria israeliana, il rabbino Moshe Levinger e un gruppo di 30 ebrei decisero di stabilirsi nella città abitata da 160.000 palestinesi per rivendicare quello spazio religioso appartenente alla Terra Santa. Nel 1970, il governo israeliano concesse al rabbino Levinger di costruire al posto di una vecchia base israeliana – Kyriat Arba, alla periferia del paese – una nuova città. Nel 1979, la moglie del rabbino condusse un gruppo di 40 donne e bambini dalla base periferica fino al centro della città per occupare il vecchio ospedale di Beit Hadassah, che divenne la prima colonia israeliana nel cuore di una città palestinese. Nel 1994, Baruck Goldstein, un colono proveniente da Brooklyn, sparò sulla folla palestinese mentre stava in preghiera uccidendo 29 persone. Temendo una ritorsione, il governo israeliano adottò il “principio di separazione”, “sterilizzando” alcune zone della città, cioè interdicendole ai palestinesi. Adesso, un contingente di 2000 soldati isola e difende una comunità di 600 persone arroccate nella zona vecchia della città. Questa è la storia dell’inferno chiamato Hebron, e le violente immagini che vediamo sono la documentazione dell’ordinaria vita quotidiana.
Giulia Amati si reca in questo paese per insegnare un corso di “Filmmaking” in un Media Center finanziato dall’Unione Europea, vede e vive una situazione che deve essere raccontata. La necessità della documentazione prende il sopravvento, ed è cosi che nasce This is my land… Hebron, documentario che ha vinto, ex-aequo con Left by the Ship, il Festival dei Popoli 2010 nella sezione “Selezione CINEMA.DOC Firenze” – e come tale è stato inserito nel suddetto progetto di promozione e valorizzazione del documentario (da noi visionati i primi due appuntamenti, cioè Il sangue verde e El sicario – Room 164), che vedrà nel 2011 la nascita di un circuito distributivo nazionale per la suddetta, ignorata, invisibile, forma cinematografica. La Amati sceglie di raccontare scendendo sul campo caldo dell’azione e della violenza, conosce Yehuda Shaul, un ex soldato israeliano che ha fondato l’organizzazione “Breaking the Silence” con cui conduce delle visite guidate al centro di Hebron, e filma i resoconti dell’ex-soldato, incaricato di descrivere a turisti e diplomatici la situazione della città. Intervista alcune famiglie palestinesi e qualche esponente della colonia israeliana di Hebron, ed incontra Stephen Natanson (co-regista del film). Tutto questo materiale è montato con dell’altro rubato alla quotidianità e filmato dalle stesse famiglie israeliane, materiale grezzo, duro e crudo, messo a disposizione dalle organizzazioni umanitarie internazionali e dall’archivio video di B’Tselem – archivio creato da Oren Yakobovich attraverso il progetto “Shooting Back”, dando a delle particolari famiglie palestinesi esposte al conflitto alcune piccole videocamere con le quali riprendere casi di enorme ingiustizie e riportarli all’opinione pubblica internazionale.
Un documentario vero e crudo come la realtà mostrata, una discesa negli inferi di un odio, realizzato attraverso l’uso corale di diverso materiale (video di archivio, videocamere, telefonini, interviste). Un lavoro di montaggio, di immagini non abbellite da nessun stile di ripresa predeterminato, un inferno ripreso senza orpelli formali, lontano dal barocchismo preconfezionato.