Nadea e Sveta

Una doppia storia al femminile per descrivere la solitudine e la complicità, la nostalgia e la gioia di ritrovare infine l’affetto di chi è lontano. Un racconto intimo, minimalista, messo in scena con tatto e discrezione, ma anche con empatia e sensibilità. Tutto questo è Nadea e Sveta, documentario della regista Maura Delpero, classe 1975, originaria di Bolzano. Apprezzato e premiato in svariati festival cinematografici (ricordiamo il Premio Cipputi e la Menzione della Giuria del Premio Ucca al Torino Film Festival, oltre alla Menzione della Giuria del Premio Solinas per la sceneggiatura) questo film scarno ed essenziale centra in pieno il suo obiettivo, ovvero un’indagine profondamente introspettiva prima ancora che sociale.

Le protagoniste sono entrambe moldave, costrette ad emigrare in Italia per ragioni economiche, come moltissimi cittadini dell’Est europeo. Sveta ha dovuto affidare alla nonna la sua bambina piccola, mentre Nadea ha lasciato i figli adulti e i nipotini. L’amicizia che le unisce è un antidoto salvifico al senso di smarrimento e solitudine che a tratti le angoscia; Sveta infatti vorrebbe portare la figlia in Italia, ma si chiede a quali difficoltà andrà incontro, mentre Nadea, accanto all’anziana signora che accudisce, tradisce un bisogno di fuga e di cambiamento, e soffre per la mancanza dei familiari. Tuttavia, lo sguardo della regista non si ferma su un piano strettamente socioculturale, ma cerca di penetrare queste due figure per descrivere il mondo intimo e segreto (ricordi, affetti, paure, speranze) che ne costituisce l’interiorità.

All’origine del documentario troviamo le esperienze personali dell’autrice, che affianca al mestiere di regista quello di insegnante, e ha fondato un’associazione per l’insegnamento dell’italiano alle donne dell’Est Europa. “Durante le lezioni, tra una regola grammaticale e un’altra, affioravano storie personali incredibili. Di queste donne mi hanno subito colpito la forza morale, la determinazione e l’assenza di qualsiasi altisonanza nel raccontare vere e proprie avventure. Mettermi nei panni di queste donne mi era tuttavia impossibile: l’empatia cozzava con la mia incapacità di comprendere l’accettazione di sacrifici tanto dolorosi. Più di tutto non riuscivo a capire come queste donne potessero convivere con la nostalgia e la frustrazione di non vedere crescere i propri figli. Ho sempre terminato questi corsi con grandi punti di domanda e una fascinazione per l’eroicità di queste storie sommerse” [1], racconta Maura Delpero. Ecco allora che il film diventa una risposta istintiva e naturale alla volontà conoscitiva e alla curiosità suscitate da questa realtà: “Mi sono tornati alla mente i loro racconti di vita, carichi di desideri e conflitti da risolvere, e per la prima volta ho pensato a un documentario che assecondasse il desiderio insoddisfatto di comprendere, che provavo nell’ascoltarle in classe, e si interrogasse sull’identità geografica e degli affetti.”[2]

Uno sguardo che tenta dunque di porsi dall’interno per raccontare l’emigrazione, per descrivere gli eventi dal punto di vista di chi si lascia alle spalle il proprio mondo: la terra, la lingua, le persone amate. Ma anche e soprattutto, come detto sopra, una minuziosa, peculiare riflessione sugli stati d’animo e sul sentire personale di queste due protagoniste femminili. Già autrice di un precedente documentario che ha ottenuto un buon successo di critica (Signori professori, 2008), la Delpero firma a pochi anni di distanza dal suo primo lungometraggio un’opera sobria e agile, equilibrata e interessante, su un argomento quanto mai attuale.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 18/08/2014

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