National Gallery
L'ultimo capolavoro di Wiseman è una coinvolgente immersione nel sistema museo dove i veri protagonisti sono i quadri conservati
Un modo per descrivere lo stile di Frederick Wiseman a chi non ha mai visto un suo film potrebbe essere estremamente curioso. Basta scorrere la sua filmografia per rendersi conto di quanto questa affermazione sia pertinente: fondamentalmente il lavoro di Wiseman consiste nell’interessarsi a un organismo sociale, entrare al suo interno e riprendere qualsiasi cosa succeda. A partire dal suo primo lavoro, Titicut Follies (1967) incentrato su un manicomio criminale americano (l’equivalente degli odierni ospedali psichiatrici giudiziari) il regista ha negli anni successivi girato documentari su ogni tipo di luogo, dall’università di Berkeley ai grandi magazzini, passando per tribunali, palestre, corpi di ballo, con un approccio imparziale all’osservazione che solo al momento del montaggio veniva organizzato secondo una struttura personale. In altre parole, per sua stessa ammissione Wiseman tende, nella prima fase di lavorazione – lo sguardo – a riprendere tutto per poi solo in fase di postproduzione attingere a questo sterminato flusso visivo e operare la selezione che poi costituirà la sua lettura finale dell’oggetto indagato.
Nel caso di National Gallery, il suo ultimo lavoro dedicato a uno delle collezioni più celebri e prestigiosi del mondo, il procedimento è stato lo stesso: 170 ore di filmato sono diventate tre ore che analizzano l’organismo vivente del sistema museo, dotato di organi interdipendenti gestiti da un cervello - in questo caso la direzione - che oltre a dirigere le funzioni delle singole unità lavora per garantire la propria sopravvivenza. Questo significa, oltre agli elementi più conosciuti, come il luogo che espone le opere, i visitatori, le guide, far luce su altre parti come gli spazi affidati al restauro, alle lezioni di arte, e le azioni deputate alla sua conservazione, che vanno dalle pulizie alle ricorrenti riunioni amministrative in cui si decidono piani economici, strategie di marketing e modi secondo cui coordinare il rapporto col pubblico.
Se però da questo punto di vista il film è estremamente interessante come tutte le altre opere di Wiseman, per l’immutata capacità di rendere, con uno sguardo allo stesso tempo obiettivo e consapevole, i termini tramite i quali gli esseri umani sanno organizzare sistema collettivi atti a una funzione specifica, il confine che oltrepassa National Gallery lo conduce su un piano finora inedito, che è quello dell’umanità alternativa degli oggetti prodotti dall’uomo. I veri protagonisti del documentario sono infatti i quadri che ospita il museo. È il serrato campo-controcampo fra immagini dipinte, visitatori del museo e spettatori del film che assegna alle opere artistiche osservate il carattere di personaggi indipendenti, che agiscono nell’inquadratura esattamente come tutte le altre persone riprese. Da una parte c’è quindi il sistema museo, soggetto a uno spazio-tempo ben contestualizzato, e dall’altra la vita autonoma del quadro, che attesta l’immortalità dell’opera d’arte rispetto al ruolo di contenitore del posto dove sono conservati.
La differenza fra i due piani è ben espressa dagli stessi responsabili della galleria: le lezioni delle guide, e la filosofia di curatori e restauratori ci ricordano che solitamente ogni museo dove siamo stati non è mai il luogo originario per cui era stata pensata l’opera d’arte – o almeno questo è ciò che si può affermare per ogni lavoro prodotto in una società che non era ancora stata permeata, come la nostra, dalla concezione dell’opera come oggetto deputato a essere visto all’interno di un contesto museale. La conseguenza più immediata di questa discrepanza di intenti sta nella diversa elaborazione della luce, lungi dal poter immaginare luoghi elettricamente illuminati in modo uniforme giorno e notte. Ad esempio gli (splendidi) interventi delle guide turistiche raccontano di quadri pensati per buie chiese medievali dove l’oro dei dipinti brillava alla luce delle candele, o per ambienti privati dalla cui finestre filtrava il raggio di luce che sarebbe andato ad accendere una composizione dai toni fortemente contrastati.
In perfetta coerenza i restauratori del museo adottano invece un metodo reversibile affinché l’opera non possa mai essere definitivamente modificata, e i visitatori apprendono che ogni immagine ha una storia individuale che porta con sé nei secoli: sono questi tutti fattori che contribuiscono a sottolineare il relativismo contestuale di ogni collezione d’arte e, in secondo luogo, il modo in cui i quadri incarnano il ruoli di ospiti del museo.
Sdoppiandosi su un duplice piano narrativo National Gallery racconta due atteggiamenti umani ben separati, la cura e la creazione. Secondo il primo punto, il film di Wiseman costituisce un omaggio commovente all’intelligenza, sensibilità e saggezza di chi si fa custode di qualcosa. Tutte le azioni eseguite da ogni singolo elemento dell’organizzazione del museo, da chi passa l’aspirapolvere a chi fa lezione d’arte ai non vedenti, sono tese a mantenere l’opera d’arte viva, presente, e comunicativa nella realtà contemporanea. Sull’altro versante ci sono poi i quadri stessi, che sono effettivamente esseri vivi che guardano dalla tela le persone e il mondo dove sono giunti e presentano una realtà differente e indipendente da quella in cui sono collocati, un nucleo articolato di significati, motivazioni e storie che chi guarda è spinto a percepire e tentare come può di comprendere.
“Un immagine non ha molto tempo e spazio per esprimere qualcosa” viene detto durante il film, ma questo non impedisce all’opera di farlo lo stesso, motivo per cui se pensiamo di non esagerare quando diciamo di essere profondamente grati a Wiseman – ora anch’esso custode, nel suo modo cinematografico, di questi lavori - per l’efficacia con cui il suo documentario rivela quanto l’esperienza di guardare degli oggetti inerti appesi a un muro possa rivelarsi complessa, entusiasmante, profonda e in definitiva, pienamente umana e intelligente.