Forza maggiore
Vincitore del Premio della Giuria allo scorso Festival di Cannes nella sezione Un certain regard, quello dello svedese Ruben Östlund è un film che ricerca ossessivamente il disumano nell'umano.
Tomas e Ebba hanno due figli, Vera e Harry, sembrano una famiglia perfetta e la loro vacanza sulle Alpi si presenta in modo altrettanto idilliaco. Un evento inaspettato causerà però la rottura di ogni equilibrio e l’irrimediabile fine di qualsivoglia stabilità, compromettendo la relazione tra i due coniugi: una valanga, che pare proprio intenzionata a piombare direttamente su di loro e a travolgerli mentre sono a pranzo, dà luogo a una dinamica imprevista, di fatto sconvolgente. Mentre il primo istinto della madre è infatti quello di salvaguardare la propria prole, il padre ha l’impulso repentino e irrefrenabile di scappare via, di salvare la pelle, abbandonando i suoi cari al loro potenziale destino. Senza pensarci, agendo su due piedi, il raptus della sopravvivenza ha la meglio su di lui. La moglie lì per lì, nel trambusto generale dovuto a un panico che per fortuna rimarrà senza conseguenze, non se ne rende nemmeno conto, ma è guardando un video dell’accaduto insieme a degli amici che quanto successo viene fuori e spazza via ogni briciolo di fiducia, trasformando il consorte in un parassita bestiale e indecoroso, in un fantasma che non è altro che la pallida ombra del padre e del marito che lei ha sposato o credeva di aver sposato.
Sono queste le premesse, inquietanti e radicali, di Forza maggiore di Ruben Östlund, il cui titolo originale, Turist, è meno giuridico (la "forza maggiore", nel codice penale, è una forza bruta della natura al cui cospetto viene sospeso il giudizio di colpevolezza) e molto più vago, oltre che gelido e impersonale. Due aggettivi, questi ultimi due, che calzano alla perfezione anche per il film in sé. Un impressionante trattato psicopatologico per immagini, quello del regista svedese, pensato in termini schiettamente formali, che coltiva un approccio al cinema drammatico che Östlund stesso non esita a definire ideologico, per via di una crudeltà antiretorica e programmatica, così distante dai meccanismi del cinema hollywoodiano e più vicina, semmai, alla geometrica cattiveria di Michael Haneke. Uno che non a caso, oltre a essere un uomo di cinema, è prima ancora un filosofo e soprattutto uno psicologo, abituato come pochi altri autori contemporanei a scrutare i lati più irrigiditi e malsani della psiche umana per affrontarli e trasporli con un’assenza di sconti analogamente feroce e brutale (salvo rare, più recenti e sorprendenti eccezioni).
Östlund ha tuttavia un suo sguardo autonomo e marcato, che si articola il più delle volte nelle forme di un serafico distacco e di un’ironia tragica che non tentenna dinanzi al pericolo di apparire insistita, derisoria, manipolatoria. In ciò risiede uno dei maggiori motivi di interesse di Forza maggiore e buona parte del coraggio di Östlund, che non teme di scandagliare i patimenti personali del suo protagonista e la sua autostima che si consuma, mostrandone tanto la scorza esterna, apparentemente coriacea e indistruttibile, equidistante e immutata, quanto i frangenti di sfogo intimo e confidenziale, che sfociano nella degradazione della propria dignità e nella messa a nudo impudica di un disagio così profondo da risultare quasi vergognoso.
Forza maggiore, dopotutto, è un film cubista applicato all’identità del singolo: quel nucleo identitario che ci accomuna tutti lo deforma e lo scompone, lo segmenta e lo moltiplica frammentandolo in mille pezzi, facendoci vedere quanto siamo e possiamo essere non solo doppi, ma anche tripli, quadrupli, settupli. Quanto le maschere che adoperiamo sono labili e di carta velina, esposte al mutare delle circostanze a tal punto da renderci atrocemente, fatalmente dipendenti da esse.
Alla stregua di ciò che ogni uomo fa per proteggere se stesso e la propria immagine pubblica quando si trova al cospetto degli altri (lo fa anche Tomas, riuscendoci poco e male), quello di Östlund è un film che si scherma e si mette in posa, ostenta la sua costruzione stilistica e la sua glaciale eleganza, ma riesce miracolosamente a fugare il rischio del manierismo stabilendo una crasi tra i conflitti interiori del protagonista e quelle immagini simmetriche e circolari, enigmatiche e ripetitive (le scene volutamente comiche con lo spazzolino davanti allo specchio, lo spalaneve che ritorna…), perfette e proprio per questo angoscianti e misteriose, in grado di atterrire in quanto, esattamente come un teorema già dimostrato, non chiedono né invocano spiegazioni ulteriori, note a margine, precisazioni di varia natura. Sono immagini controllate e di un rigore evidentemente nocivo, che nasconde dentro di sé un calvario indicibile e più grande, un tormento che quell’elaborazione estetica è chiaramente lì a celare e dissimulare, in un gioco del gatto col topo con lo spettatore.
Il film ricorre in più di un’occasione a degli intermezzi che consistono in quadretti paesaggistici e montani delle Alpi che vengono accompagnati da sonorità sinfoniche: si tratta di momenti bizzarri e spiazzanti, in cui sono proprio gli scenari innevati a parlare il linguaggio del malessere e a diagnosticare in maniera definitiva e inappellabile un cancro in corso, altrove, in un nucleo di quattro persone identico a mille altri ma solo in apparenza. Il prologo del film, in tal senso, è una palese dichiarazione d’intenti, cui ne seguono tante altre, anch’esse consapevoli e ugualmente giudicanti: sequenze stupefacenti animate da un’inequivocabile fascinazione per i macchinari e per ciò che è meccanico, sottolineando così lo scomodo compito che il film si prefigge: svelare quanto davvero c’è, di disumano e automatico, irrazionale e non mediato dal sentimento, nell’umano.
Anche coloro che stanno intorno a Tomas e Ebba appaiono in fondo imbalsamati e inanimati, si mettono in posa, esibiscono convinzioni e atteggiamenti come fossero automi preimpostati, salvo poi rivelare qualcosa di più e qualcosa d’altro quando sono filmati nel privato, dentro un letto o da altre parti. Questi personaggi piccoli piccoli, schiacciati dentro campi lunghi insensibili che danno l’idea di non volerli nemmeno accogliere al loro interno, sono puntini persi dentro spazi smisurati e la loro guerra dei sessi è anzitutto uno scontro di punti di vista, che sconfina di buon grado nell’horror da camera beffardo e situazionista, dove la malattia del corpo e quella dello spirito coincidono e solo nel finale qualche maschera viene davvero fatta cadere, restituendo a uomini e donne la libertà di una passeggiata a piedi forse rigenerante e, una buona volta, salvifica.
Un possibile nuovo inizio, sul quale però ovviamente il film glissa, ricordandoci, al culmine della farsa tragicomica, che quando smettiamo di indossare le nostre maschere mettendoci in cammino verso una supposta purezza diventiamo irraccontabili perché, semplicemente, cessiamo di esistere.