Candyman (2021)
Nia Da Costa e Jordan Peele rileggono il mito di Candyman come un monito dal passato che guarda a un presente senza memoria: ogni nero ucciso per questioni razziali diventa, deve diventare, mythos.
Candyman – Terrore dietro lo specchio (1992) di Bernard Rose (con l’apporto di Clive Barker, autore del racconto a cui il film è ispirato) è l’origine dell’ultima icastica figura di villain nel contesto New Horror, o forse già al di là di quest’ultimo, presentando caratteristiche in buona parte inedite rispetto ai titoli che avevano reso lo slasher il filone horror per eccellenza degli Ottanta, pur avendo esso avuto origine nei Settanta, e non solo per merito di Bob Clark, Tobe Hooper o John Carpenter, visto che l’Italia, con Mario Bava, Dario Argento e Sergio Martino, ne aveva anticipato numerosi topoi e schemi narrativi. I vari Michael Myers, Leatherface, Jason Vorhees – e in parte anche Freddy Krueger – erano pure maschere del Male, automi della distruzione con esigua tridimensionalità psicologica e un’identità costruita prevalentemente dalle loro azioni e dalle fattezze stravolte dal trucco o, appunto, dissimulate sotto le proverbiali maschere. Il Daniel Robitaille-Candyman di Tony Todd ci mette invece la personalità attoriale, la faccia (e la voce), incarnando la dolente e indomabile figura di un nero – altra peculiarità fondativa e pressoché inedita del ruolo – che ritorna dal mondo dei morti, o forse da quell’orizzonte umbratile che si situa al di là dello specchio, per reclamare la propria vendetta.
Il primo Candyman – tralasciando una coppia di seguiti, entrambi dei Novanta, di cui solo il primo dei due riveste un certo interesse – è innanzitutto una potente metafora di come nasce e si alimenta un mito metropolitano che, per Barker e Rose, risulta legato a doppio filo con la sfera dell’inconscio, un vincolo fra individuo e collettività di tipo emotivo, prerazionale, ancestrale, letteralmente di sangue, dunque fisico, passionale, vitale e mortale a un tempo. Il micromondo afroamericano del Cabrini-Green di Chicago, in cui si svolge buona parte del film di Rose, è un tessuto antropologico e sociale innestato all’interno della compagine cittadina, ma totalmente avulso da essa. Si tratta infatti di una comunità fondata sulle proprie elaborazioni mitopoietiche, nelle quali vengono a configurarsi le connessioni archetipali che essa intesse con le proprie origini e dalle quali trae la linfa della propria identità. Identità e integrazione sono dunque il territorio dello scontro, là dove la prima è, e non può che essere, negazione della seconda, poiché nessuna identità appunto, individuale o collettiva, è innocua, pacificata, ma necessita invece del conflitto, del polemos, per affermarsi. Ogni integrazione/incorporazione è in realtà antitesi, a un tempo, di qualsivoglia identità e conflitto. Dal canto suo, la figura di Candyman/Daniel Robitaille affonda le proprie radici sia nella storia sia nella memoria collettive della comunità afroamericana degli Stati Uniti, ma anche nel vissuto personale e affettivo del personaggio, il vissuto di un nero che fu un uomo e di un uomo che fu un nero in un mondo di bianchi dominatori, una dualità cruciale per cogliere la stretta connessione fra il totale e il particolare di una nazione con tratti mostruosi, che, proprio per questo, genera mostri. Candyman/Robitaille è tornato da un altro mondo e da un altro tempo e, cento anni dopo essere stato torturato e ucciso a causa del suo amore per una donna bianca, egli incarna il feticcio del Cabrini-Green, un rabido dio della vendetta che abita al di là dello specchio e che attende di essere evocato per dare corpo e sangue al proprio rancore.
Nia DaCosta e Jordan Peele (che co-sceneggia e co-produce) si installano in un nuovo presente che continua a guardare lontano e con Candyman (2021) tentano di riattualizzare il mito dell’Uomo Con l’Uncino, dell’Uomo Alveare, prendendo direttamente le mosse dal film di Rose e tralasciando ogni sviluppo narrativo contenuto nei due seguiti. Torna Chicago, dopo le “trasferte” a New Orleans e a Los Angeles del secondo e del terzo capitolo, ma l’immagine deforme dell’integrazione, il ghetto del Cabrini-Green, è ormai pressoché un ricordo, essendo stati demoliti tutti i fatiscenti condomini (l’ultimo nel 2011) che avevano fatto da sfondo agli esordi omicidi del personaggio. La zona è stata riqualificata ed è ora abitata da membri della media e alta borghesia cittadina. Ed è infatti dall’interno di questa classe sociale che Nia DaCosta seleziona i propri personaggi principali, quasi tutti afroamericani e quasi tutti benestanti. Non è solo la figura di Candyman a sembrare sepolta sotto la cenere della Storia, bensì anche le cause che ne hanno originato la leggenda, ovvero, il rovescio negativo del mitologema relativo alla nascita della Grande Nazione: da un lato, un crogiolo di popoli diversi ancorché accomunati dall’orgoglio e dal privilegio di essere americani; dall’altro, una realtà di sperequazioni razziali e sociali, che covano ai margini dell’opulenza-spettacolo e, per questo, appaiono indistinte, sfocate.
Il baricentro narrativo del film è costituito da Anthony McCoy (Yahya Abdul-Mateen II), un artista visivo alla ricerca di ispirazione, e da Brianna Cartwright (Teyonah Parris), direttrice di una galleria d’arte e fidanzata dell’uomo. Belli, afroamericani, insediati in un’abitazione di classe e con problemi di ambizione e carriera che poco hanno a che vedere con la sopravvivenza, Anthony e Brianna sembrano l’emblema dell’avvenuta maturazione di un paese che, a distanza di trent’anni, non relega più i neri in quartieri dormitorio, ma li accoglie invece nei salotti buoni dell’upper class. Accogliere, integrare, assorbire le persone, dunque omologarle; riqualificare, rimodernare i luoghi – nascondendo dunque la cenere dell’indigenza sotto altri tappeti, per così dire – cancellandone i trascorsi e, con essi, la memoria di cui sono carichi. Ecco, in fondo il Candyman del nuovo millennio è – potrebbe essere – tutto qui: un tuffo in un presente in perenne evoluzione, in cui le persone si spostano e i luoghi si trasformano, fino a non recare alcuna traccia di ciò che erano stati; i baricentri culturali e storici svaniscono e, con essi, la memoria individuale e collettiva, per quanto dolorosa. Il mondo in cui Brianna ed Anthony cercano di farsi strada è infatti il mondo dei bianchi, con le regole, il linguaggio e le paranoie dei bianchi, in cui i bianchi occupano ancora e sempre posizioni di privilegio (sono “più uguali degli altri”, verrebbe da dire) e in cui i neri possono fingere di non esserlo, neri, oppure scordarselo, come un residuato di un’altra epoca. Almeno finché non si affacci all’orizzonte un promemoria tale da dovercisi confrontare senza sconti. E il promemoria si chiama Candyman.
La narrazione filmica sembra tuttavia accentrarsi, riguardo all’identità del demone proveniente da un altro tempo, su una figura diversa da quella di Robitaille, ovvero, su Sherman Fields (Michael Hargrove), vittima, anni prima, di un mortale e gratuito pestaggio da parte della polizia. Non tutto è però come sembra, ancora una volta. Infatti, non si tratta del Candyman, ma dei Candyman. Da Costa e Peele decidono di moltiplicare la figura dell’Uomo Con l’Uncino, assegnando a tale proliferazione un ruolo ben preciso: ogni nero assassinato dai bianchi è un Candyman, ovvero, un guardiano della memoria e del tempo, il cui compito principale non è tanto uccidere per vendetta o livore, quanto essere narrato, diventare letteralmente un racconto, in cui siano esplicitate le cause profonde che ne hanno decretato la nascita sotto le nuove spoglie di vendicatore immortale. Al personaggio di McCoy viene invece dato il compito di traghettare gradualmente il racconto dai territori dell’inconsapevolezza, venata da problemi accessori alla condizione umana, a una dolorosa consapevolezza. È esattamente il tragitto compiuto dal personaggio, grazie a una puntura d’ape, un segno dell’Uomo Alveare che modifica progressivamente il corpo e i tratti del protagonista, fino alla sua trasformazione in novello Candyman. Da ombra del presente a presenza dal passato.
Da Costa e Peele rileggono la leggenda di Candyman aggiornandola ai tempi e, ancor di più, alla propria poetica personale: la società americana – o magari tutte le società del mondo, per esteso e ciascuna con le proprie specificità – presentano un sopramondo sotto a cui si cela un sottomondo, e il primo è incantevole, magari accattivante, coi tratti irenici di un novello Eden, ma l’altro è oscuro, allarmante, in breve, è esattamente (come) un horror. È quest’ultimo a squarciare il Velo di Maya delle ipocrisie e dei perbenismi, consentendo alla realtà di fare finalmente irruzione e di installarsi nell’immaginario. “Solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico” dichiarava Pasolini, tramite il personaggio del centauro in Medea (1969), vale a dire, solo i mitologemi possono essere portatori di quella verità originaria – perduta nella modernità – che è in grado di scalfire il particolare e di trascenderlo, di individuare ciò che persiste sotto il manto ondivago del divenire, di rivelare ciò che l’uomo è, nelle profondità della sua natura. E intanto, la leggenda di Candyman continua perché il conflitto fra i due mondi continua, senza tempo. “Tell everyone…”.