Matrix Resurrections
Rompere il giocattolo al tempo della nostalgia universale, un gesto filmico auto-distruttivo che sfotte i meccanismi industriali di oggi e ci ricorda che non tutto è fatto per tornare.
Delle tante cose che è Matrix – l’universo Matrix, sognato dalle Wachowski come un ecosistema transmediale in costante espansione – la più rilevante ai fini di un discorso su Matrix Resurrections è il suo carattere testimoniale, il suo essere figlio di un tempo in cui la nuova convergenza tra i media, l’espansione iperreale del digitale e l’affermarsi della rete come interconnessione globale democratica (risorsa open source in cui fare comunità, attivismo e cultura grassroots) facevano pensare a inedite possibilità riguardo il creare e condividere la conoscenza. Nonostante la sua natura corporate, Matrix è un progetto che nasce da queste nuove forme di comunicazione e narrazione, e sulla linea di tali premesse si pone l’obiettivo di insinuare nel cuore della macchina industriale un modo diverso – collettivo, espanso, libero – di intendere i concetti di franchise, autorialità, intrattenimento. Un modo diverso, in definitiva, di fare immaginario. Il tutto attraverso meccanismi transmediali all’avanguardia, progettati per espandersi oltre l’azione dei creatori originari e accogliere altre visioni e progetti (Animatrix in questo ha fatto scuola), attraverso l’incontro di piattaforme e media diversi: dal fumetto all’architettura internet, dal single player Enter The Matrix all’animazione internazionale, dalla narrazione espansa del MMORPG The Matrix Online all’ossatura dorsale cinematografica. L’esperienza grassroots e open source dei processi creativi digital-cyberpunk alla corte di Hollywood e dei conglomerati mediali.
Oggi, a 20 e più anni di distanza (e dopo 20 e più anni di insistenza da parte della Warner), Lana Wachowski decide di resuscitare quel mondo e quei personaggi, ma tutto attorno a lei di quel desiderio primigenio per un immaginario altro – per lo meno a livello massificato e alto nella scala industriale – resta davvero poco. Basti pensare a Disney e alle maglie del suo multiverso, che tutto assimila e omologa, correggendo e curando, fino a che ogni alternativa non risulti assorbita dentro un orizzonte algoritmico e merceologico che serializza in forme eterne e anonime e meccaniche il suo immaginario (come esemplifica il trattamento destinato ai villain di Spider-Man: No Way Home, schegge anarchiche provenienti da altre linee dimensionali e bisognose per questo di essere aggiustate, migliorate, ri-mediate). È il nuovo canone, bellezza, l’industria culturale delle merci e degli immaginari, florida come non mai. Ecco, in questo contesto come può muoversi un concept come Matrix? Come salvaguardare l’identità di quell’universo dal tritacarne anonimizzante e taylorista del remaking in aeternum? Minando sé stesso e le sue fondamenta industriali, è la risposta autodistruttiva, pressoché terroristica di Lana Wachowski, con un film sgangherato, svogliato, sfrontatamente contrario alle aspettative innescate, eppure glorioso nel suo sfacciato meccanismo di auto-annientamento.
Seppur estrema, la scelta è coerente con il percorso delle sorelle, che conclusa la trilogia si son tenute lontane da ogni proprietà intellettuale di lusso e franchise corporativi, pur avendo dalla loro un certo credito industriale da poter spendere. Cloud Atlas e Jupiter’s Ascending sono davvero due esempi di autarchia industriale, incerti quanto si vuole ma antitetici all’approccio dominante del cinecomic. Matrix Resurrections non si discosta di molto da quella linea e adotta due strategie di risposta alle logiche seriali della Hollywood contemporanea, due soluzioni che corrispondono in buona parte ai due atti in cui si divide il film.
Il primo stratagemma è il carattere metatestuale della nuova prigione sintetica di Neo, che svela e mette alla berlina i meccanismi ricattatori subiti dalle Wachowski a opera della Warner, che ne esce come un’entità dall’intelligenza belluina e la fame compulsiva di contenuti massificati. In questa sezione il film regala il suo meglio, grazie a Keanu Reeves amabilmente fuori contesto e una regia che costantemente rimarca il carattere grottesco e sostanzialmente misero delle tante writer’s room industriali. La fuga dal Matrix adesso è anzitutto fuga da un sistema mediocre, ridicolo, una simulazione pseudo-creativa in cui una crisi depressiva di mezza età è in realtà un campanello d’allarme di fronte la morte dell’umano, la narcotizzazione quotidiana delle immagini in serie. La seconda soluzione, che alimenta e giustifica il resto del film, è la focalizzazione primaria sull’elemento umano, sul rapporto amoroso tra Neo e Trinity, in cui il primo si presenta in forma invecchiata e giustamente trascorsa mentre la seconda trova finalmente la centralità che le spetta. Da sempre sotterranea alle vicende narrate, a tratti emersa ma mai con questa forza, la relazione tra i due è il cuore reale del film, il terreno in cui cessa l’autocritica meta e tornano gli echi delle passate suggestioni tematiche, dal libero arbitrio alla scelta, dal timore per la verità all’effetto anestetizzante dell’equilibrio tra paura e desiderio. Il resto poco importa a Lana, a partire dalle scene d’azione, mai così stanche, limitate visivamente e tirate via. Sono piuttosto i corpi il punto d’interesse, i volti invecchiati, canuti, rigati di Reeves e Carrie-Anne Moss a bordo della nave Mnemosyne, fuori dal Matrix e dentro la carne.
Nell’insieme Matrix Resurrections è un film che nessuno voleva se non chi sperava di trarne di più, magari un nuovo punto di partenza per un franchise da opporre allo strapotere Disney-Marvel. Difficile che questo avvenga, la resurrezione è in realtà un magnifico atto distruttivo che lascia ben pochi spiragli per eventuali seguiti. Al tempo degli eterni ritorni, in cui la nostalgia è stata eletta a sistema industriale, il giocattolo è rotto, e per una volta è meglio così.