Nico, 1988

Susanna Nicchiarelli filma un tentativo, quasi del tutto riuscito, di ridare corpo e animo di un'icona per restituirci la complessità di una donna.

C’è un’altra Nico oltre a quella che l’imperdonabile monodimensionalità dei racconti glam-iconografici, delle riduzioni ad effigie, a disegnino in rilievo, suggerisce a chi si accontenta di tali abbaglianti e fuorvianti ritratti. Semplificati, e quindi, poveri perché impoveriti. Il più delle volte volutamente sensazionalistici, sommari, tanto più incapaci di restituire la complessità del vivere quanto più la vita narrata è stata densa e colma d’un largo spettro d’esperienze.

Con Nico, 1988, promettente film d’apertura della sezione Orizzonti di questa Venezia74, Susanna Nicchiarelli supera con un balzo gli acquitrini in cui spesso finiscono per impantanarsi i biopic classici sulle celebrità più pop – almeno quelli più faciloni ed epidermici –, incapaci, come sono, di rinunciare al collaudato schema, dalla sicura presa commerciale, della parabola ascendente-discendente; dimentichi del fatto che tutti gli archi esistenziali, soprattutto quelli più acuti, delle persone colpite da una fama effimera e fugace, finiscono per assomigliarsi. E per diventare noiosi, se spiegati come un irriguardoso saliscendi.

Nicchiarelli tralascia infatti le parti in cui Nico vive più in funzione di qualcun altro che di se stessa (la Wharol superstar, la “chanteuse” dei Velvet Underground, l’amante di Brian Jones, di Bob Dylan, di Jim Morrison, di Alain Deloin, l’attrice di Fellini e di Garrel), quelle che le hanno donato più visibilità e meno identità, e si concentra esclusivamente sugli ultimi tre anni della vita di Christa Päffgen (vero nome della cantante, modella e attrice tedesca), quelli che vanno dal 1986 al 1988.

Anni di maternità tormentata, in cui Christa cerca di ricucire il rapporto con un fragile figlio dalle tendenze suicide (Christian, detto Ari, avuto a seguito della relazione con Alain Delon) mentre vive la coda finale della sua obliqua maturazione umana e musicale – Nico ha ormai sei album in studio da solista alle spalle –, un percorso che ha condotto al concepimento, in sinergia con l’ex Velvet John Cale, di due album fondamentali per l’evoluzione del rock a venire: The Marble Index e Desertshore. Pietre miliari e pioneristiche, dal profondo influsso musicale, soprattutto per quanto riguarda Gothic, New Wave e tutta la scena underground degli anni Ottanta. Per Christa è il periodo dei capelli scuri e degli stivali pesanti, dell’armonium e dei concerti in giro per un’Europa che di lì a poco, con il crollo del muro, sarebbe cambiata per sempre; del tentativo di rinascita, della disintossicazione e poi, infine, della morte, improvvisa, per un’assurda caduta dalla bici, ad Ibiza.

Una Nico inedita, certamente meno nota, già fuori dal cono di luce dei riflettori e quindi sfuggente, nascosta, su cui esiste poco materiale. Un vuoto che per la Nicchiarelli è diventato spazio di ricerca – dipanatasi attraverso testimonianze e racconti, soprattutto del figlio Ari, con cui ha passato diverso tempo a Parigi – e di costruzione drammaturgica; di libera invenzione, persino. Così del manager di Manchester che provò a rilanciare la carriera dell’artista, il mogul della Factory Record Alan Wise (interpretato da John Gordon Sinclair e rinominato Richard), non rimane che l’accento di Manchester e un profondo trasporto per le sorti della sua creatura, mentre altri personaggi, come Ari o l’italiano Domenico Petrosino (Thomas Trabacchi), che ospitò Nico durante il suo tour sul litorale romano e che la conobbe approfonditamente, vengono tratteggiati con maggiore accuratezza. Ad assumere importanza non è dunque la ricostruzione storica ma l’esemplarità della storia di una donna dalla mille sfumature che ha saputo lottare contro le difficoltà della vita, a partire dal trauma insanabile della guerra e delle bombe su Berlino – con cui si apre, non a caso, il film –, per finire alla tragica relazione con il figlio.

Del periodo dell’icona, cosi, non possono che rimanere pochi fotogrammi, provenienti perlopiù dall’archivio personale – molto scarno, come ha riferito la regista in conferenza stampa – del padre del cinema d’avanguardia, Jonas Mekas, che proprio a Warhol e al suo entourage dedicò nell’82 Scenes from the Life of Andy Warhol: Friendships and Intersection. Frammenti di un tempo (in)dimenticato che affiorano dalla corrente incessante del passato in cui Nico sembra volersi continuamente immergere. Un fiume della memoria che, come il personaggio interpretato da Margherita Buy nel poco riuscito La scoperta dell’alba, Nico cerca di risalire con l’ausilio di un dispositivo tecnologico (il telefono, lì; un registratore di suoni portatile, qui). Catturando rumori molesti e rintronanti, Christa spera di poter tornare, proprio come Caterina nel secondo film della regista romana, lì dove tutto è andato storto. Per poter capire, e guarire. Torna anche qui, allora, con prepotenza, uno dei temi prediletti da Susanna Nicchiarelli, il rapporto tra passato e futuro, la percezione che l’uomo riesce a costruirvi attorno e attraverso, l’importanza che questo processo riveste nella costruzione della propria identità. E con esso torna l’amore per la musica, con gli arrangiamenti dei soliti Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo e le parti vocali affidate all’attrice feticcio di Thomas Vintemberg e Susanne Bier, la cantante danese Trine Dyrolm, in perfetto stato di grazia nei panni della musa di Andy Warhol dopo l’Orso d’argento come migliore attrice al Festival di Berlino dello scorso anno.

Ed è proprio nella musica e nei suoi testi più ispirati – surreali, metafisici, persino mitologici, come nella splendida Nibelungen, che risuona, extra-diegeticamente, in una delle scene più belle del film –, quelli in cui traspare tutto il suo amore per i poeti romantici (per Coleridge e Wordsworth, ma anche per William Blake), il suo debito con Sylvia Plath, il piacere del viaggio lisergico ereditato dalla frequentazione con Morrison, che va rintracciata la vera essenza di Nico, la turbolenta inquietudine che dalle bombe su Berlino all’assuefazione all’eroina ha liquefatto la sostanza del suo essere e dato forma alla sua esistenza, l’irrequietezza di una donna che già in The Marble Index appariva, come affermava un critico dell’epoca, alla stregua di un fantasma. Ecco, Nico, 1988 è proprio questo: un tentativo quasi del tutto riuscito (la regia avrebbe forse potuto osare qualcosa in più proprio nella messa in scena dei concerti) di ridare corpo e spessore ad un’icona, di restituirci la rotonda complessità di una donna che oltre ad essere Nico è stata anche, e soprattutto, Christa.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 31/08/2017

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