Tōkaidō Yotsuya kaidan
Il cult di Nakagawa contamina, senza tradirla, una delle più celebri storie di fantasmi giapponesi con uno sguardo moderno e allucinato, gettando le basi per l'horror nipponico (e non solo) a venire.
È un mondo infestato da fantasmi quello del cinema giapponese a cavallo tra gli anni '50 e '60. Fantasmi che vengono dritti dalla tradizione popolare, tra samurai ambiziosi, promesse tradite e istinti primordiali, e tracciano l'immagine e l'immaginario di un paese inevitabilmente collegato a doppio filo con un passato intriso nel sangue e nella colpa. È perfettamente in sintonia con lo spirito del tempo e con tutti i luoghi comuni del genere, dunque, un film come Tōkaidō Yotsuya kaidan (letteralmente "Storia di fantasmi di Yotsuya in Tokaido"), tra le opere più celebri di Nobuo Nakagawa (suo anche il cult infernale Jigoku) ed esempio perfetto della capacità di certo cinema giapponese del periodo di saper filtrate il proprio passato attraverso uno sguardo audace e decisamente immerso nella modernità.
Come sarà per la letteratura e i racconti folklorici in Kwaidan – forse il film che davvero, di lì a qualche anno, farà conoscere questo sottogenere al mondo – è il teatro kabuki, nel film di Nakagawa, il punto di partenza che ci proietta direttamente alle origini della storia (il testo, famosissimo in Giappone, è del XIX secolo e vanta numerose trasposizioni cinematografiche), sottolineando sin dall'incipit il legame inscindibile di quest'opera con la propria tradizione. Se però il film di Masaki Kobayashi non si libererà mai del tutto da un'impostazione quasi teatrale (a partire dalle immaginifiche e irreali scenografie), in Tōkaidō Yotsuya kaidan proprio il teatro pare essere paradossalmente messo subito da parte, privilegiando, piuttosto, uno sguardo più audace e attento alle specificità del mezzo cinematografico.
Nella classica parabola di morte e disperazione di Iemon Tamiya, ronin pronto a tutto, anche a macchiarsi di una lunga serie di omicidi (compreso quello della moglie Oiwa), pur di conquistare un qualche prestigio sociale, c'è infatti tutta la forza di un cinema che, man mano che la vicenda precipita, dispiega il proprio armamentario stilistico ed espressivo, delineando una progressiva discesa agli inferi dove il soprannaturale finisce per confondersi con l'inconscio e con una dimensione psicologica inedita e mai così allucinata.
È proprio questa ambiguità di fondo, con i fantasmi delle vittime che si identificano sempre più con il senso di colpa e la follia dei loro assassini mentre l'orrore diventa tanto tangibile quanto più intimo e privato, a fare del film di Nakagawa uno dei prodotti più interessanti, e in parte atipici, del genere. Perché se è vero che questa storia tocca tutti i temi cardine delle opere del periodo, dall'accoppiata sesso e morte alla discesa nella bestialità dei suoi protagonisti divorati dall'egoismo, passando per figure femminili sottomesse, ingannate e tradite che solo nella vendetta trovano un qualche riscatto (oltre al fantasma di Oiwa, interessante la figura della sorella che impugna la spada per vendicarla), è innegabile che vi sia presente anche uno sguardo più introspettivo e personale.
Tra trovate quasi antesignane del body horror e sprazzi di una visionarietà surreale destinata a fare scuola (il cadavere della vittima abbandonato in acqua che compare al protagonista fluttuando sul soffitto quasi come in The Gift di Sam Raimi, per non parlare degli evidenti omaggi al fantasma presenti in The Ring e Ju-on), Tōkaidō Yotsuya kaidan rilegge così un classico della tradizione nipponica alla luce di un cinema nuovo, un cinema che sa che l'orrore, quello vero, è tutto all'interno dei suoi deprecabili protagonisti, frutto di umanissime azioni (e ambizioni) che non conoscono generi, epoche o confini.