Oltre il guado

Ascoltando i rumori del bosco Bianchini ci trasporta oltre il guado, su un terreno carico di oscuri anatemi e maligni fantasmi

“Scrutando in quella profonda oscurità, rimasi a lungo, stupito, impaurito,

sospettoso, sognando sogni che nessun mortale mai ha osato sognare,

ma il silenzio rimase intatto, e l’oscurità non diede nessun segno di vita.”

Edgar Allan Poe, Il Corvo.

Oltre il fiume...oltre il guado che a terra si stende lasciando sulle orme il predominio dell’Impronta, qui dominano il bosco ed i suoi fantasmi, anime a cui è stato occluso il cielo, anime incapaci di attraversare quella fitta cortina fatta di legno e rami, che sembrano abbracciarsi, respingersi o riuscire a far paura. Una ragnatela di braccia che divide lo sguardo umano in porzioni di nebbia, in raffiche di vento, in giochi di pioggia. Animali selvatici, villaggi abbandonati, case cariche di ombre e cattivi presagi. Il bosco, sterminato immenso e vivo e l’uomo, unico animale senziente, solo, isolato nell’ombra più oscura della notte, più buia, più viva, più notte.

Stiamo parlando di una zona geografica ben precisa, di quel nord Italia che confina con la Slovenia, luogo di boschi, e di un regista in particolare, Lorenzo Bianchini, udinese, che presenta quest’anno l’opera più matura nella sua quasi ventennale filmografia: Oltre il guado (Across the River); riscuotendo unanimi plausi e premi nei più prestigiosi festival europei ed italiani. Un’eminenza, Bianchini, nel mondo underground del cinema horror nostrano, un vate della paura e della tensione, talentuoso regista fin dalle sue prime opere (Lidìs cuadrate di trè, Custodes Bestiae, Film Sporco), realizzate con due soldi ed in dialetto friulano, ma confezionate bene, degni esempi di tensione fatta in casa. Percorso proseguito con opere di spessore differente, attuate attraverso delle produzioni più consistenti, professionali, con le quali il regista riesce a dare maggiore corposità e credibilità agli sperimenti del terrore realizzati nei primi anni della sua carriera. Sono gli anni di Occhi, lungometraggio per certi versi affine a quest’ultimo, dove si intravedono già chiaramente gli omaggi ad un cinema che Bianchini conosce ed ama, come il primo Avati, che con il suo La casa con le finestre che ridono, gialleggia con la provincia, luogo distante, attraente, nero. Ed è lo stesso Bianchini che mette la provincia al centro del suo interesse orrorifico, il suo dialetto friulano ne è una prova, certo ostico per chi non ne conosce le proprie idiosincrasie, ma anche affascinante, in quanto portatore di realtà filmica, quasi documentale, quasi studio antropologico della sua regione d’appartenenza. Il dialetto usato come fattore di verismo in lavori che hanno a che fare con l’ignoto, l’inconoscibile ed il mostruoso, sono una sottolineatura d’origine in funzione di una verosimiglianza che in lavori di genere come questi, molto spesso con budget striminziti, è difficile da trovare. Verosimiglianza, dialetto, paura, parole queste d’ordine, per un regista come Bianchini, che valgono tanto quanto il massimo comune denominatore della suggestione, del suggerimento della paura anziché dell’uso del mostruoso mostrato (fattore importante più nei primi lavori che negli ultimi).

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Chiarisce così lo stesso regista in un’intervista rilasciata a Mattia Filigoi sulle pagine di Nocturno: “Con Occhi prima e con Oltre il guado poi, ho intrapreso un discorso che è di descrivere quanto più possibile le paure che possono realmente accadere, senza aggiungere effetti, che poi nella realtà non esistono. Quindi, introdurre personaggi che si trovano in contesti solitari, perché è quando sei solo che incominci a immaginare e pensare, inquietandoti rispetto a quello che ti immagini. Se introduci un mestiere come il naturalista, la solitudine che fai vivere è una solitudine non forzata: uno parte da solo nei boschi per fare un lavoro. E’ una cosa già realistica, credibile, dall’inizio.” Credibilità ed isolamento, la solitudine di una persona (coincidente con la solitudine nella visione dello spettatore) che nell’ambientazione ha la libertà, ed il silenzio, di pensare, immaginare, aver paura. Se in Occhi, il restauratore Gabriele Morelli si isola all’interno di villa Gori, location carica di ectoplasmi viventi e ritratti affrescati da rinfrancare, lasciando solo l’uomo ed il suo lavoro all’interno di una villa silenziosa ed oscura, qui in Oltre il guado, sarà l’etologo Marco ed il bosco, carico di sferzate di vento, pioggia, versi di animali distanti e carcasse uccise ad isolare il protagonista nei suoi pensieri creando un’atmosfera immaginifica dove il poco diventa tanto, dove la paura si insinua e cresce nella mente del protagonista prima ancora di essere vista e riconosciuta. Una cassa di risonanza celebrale, degli occhi e delle orecchie che diventano gli unici sensi fallibili, dove il sospiro diventa grido, la pioggia diventa tetra burrasca, dove la morte di due ragazze diventa prima leggenda e poi anatema. E adesso arriviamo al dunque. In che modo spaventa Bianchini? Abbiamo appena chiamato le location, casse di risonanza, e questo paragone non mi è sorto a caso. In Oltre il guado, il regista intimorisce con il niente e ci riesce molto bene. La paura passa per l’ampiezza del suono, nel riverbero che crea all’interno della mente del protagonista (e nella testa dello spettatore), tra il bosco e nel piccolo villaggio di Topolò, con i loro suoni e rumori caratteristici, il silenzio del villaggio, i rumori della notte, il bosco, gli animali, sono riproposti a noi con una valenza sonora elevata al quadrato. La tensione, quando dimostrato che l’immaginazione solitaria crea pensieri, suggestioni e mostri, parte, continua e finisce su un duplice livello sensitivo, da una parte l’orecchio, quindi l’udito che esalta il normale suono ambientale trascinandolo nel mondo dell’ombra e nell’ignoto, amplificandolo, quindi, come una cassa di risonanza, poi l’occhio, la vista, il buio, il bosco.

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Se da una parte ogni minima goccia che cade porta con se il debordante suono della cascata, la vista in soggettiva certifica, dando anche al suono una sottolineatura di verità, quindi di tensione vera e non dissimulata. La certificazione che qualcosa di oscuro sta veramente accadendo, qualcosa che ha per noi quei rumori tanto aspri, carichi di densa atmosfera. Gli elementi inseriti dal regista come PoV (Point of View), Super 8 (di valenza esplicativa e storica, quindi necessaria per mantenere alta la verosimiglianza) non sono come spesso accade degli espedienti posticci e nauseabondi per la loro ostentata retorica, ma hanno il serio valore di riproposizione del reale. Sia nella loro finta funzione storica (autenticandola), sia filmando il già accaduto, o l’imminente che sta per accadere, avendo una valenza scientifica/naturalista, come l’utilizzo di videocamere istallate nel bosco o su una volpe. Aumentando così la valenza della riproposizione del reale, mai a discapito della verosimiglianza, debita al mestiere stesso del protagonista, anzi, usandoli in maniera funzionale, per creare della tensione con degli strumenti totalmente inerenti al suo lavoro di etologo. Particolare, a tal proposito, la scena in cui Marco vaga nella notte del paese ascoltando, con microfono direzionale e cuffie, i rumori dei passi delle apparizioni. Il bosco, è la location principale, diventando protagonista a tutti gli effetti, d’altronde è lo stesso regista che ci ricorda come le prime idee che stanno alla base di un suo film, nascono sempre prima da immagini precise o da location immaginate. Marco Maltese (impressionante l’assomiglianza con Dafoe di The Hunter) vive il bosco come un esperto, un cacciatore che non lo teme perché lo conosce e lo rispetta, ma vacilla oltre il guado, al di là della riva il bosco ha un’altra forma, diventa lui il protagonista. La notte la può anche ascoltare, con cuffie ed antenna, cercando di percepire l’intensità del suono del GPS, ma non sopravviverà mai al rischio, all’intensità dell’ombra, all’atmosfera in cui Bianchini, avvolge lo spettatore, indicizzando in lei e nei suoi suoni, i veri protagonisti. Un film che ha fatto parlare, e direi giustamente, con un’ottima fotografia, molto tenue e realistica nella prima parte con più giorni e luce ed occlusiva ed oscura quando entra pesantemente in gioco la notte. Un ottimo film di genere, un film tutto italiano, un film che se fosse durato appena sette minuti in meno, avrebbe consegnato a Bianchini, ed agli amanti del genere, il loro piccolo capolavoro.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 22/09/2014

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