Il segreto di una famiglia
Tra segreti di famiglia e fantascienza emotiva, Pablo Trapero conferma tutti i limiti del suo sguardo.
Pablo Trapero torna a Venezia, fuori concorso, con Il segreto di una famiglia (La quietud). A differenza de Il Clan, qui non sussiste nemmeno il genere come ipotetica, lontana via di fuga. Rimane la famiglia - l’altro volto dello Stato - pronta a saltare in aria a colpi di tramonti rossastri e altisonanti retaggi d’autore. Una famiglia, questa, di nuovo unita a causa dell’ictus del padre: madre e figlie tornano a sedersi alla stessa tavola, nella villa di sempre. Un ritorno in famiglia con cui poter inaugurare, programmaticamente, il proprio giochino al massacro. Parte subito, senza troppi preamboli, il girotondo di segreti e rancori familiari che, proprio dietro l’angolo, nascondono il doloroso passato della dittatura militare argentina (viene da riflettere, qui alla Mostra, sulla tendenza diffusissima di film dove la storia intima finisce per fondersi con quella nazionale: Cuàron e Guadagnino ne sono l’esempio più calzante). E tutto va a rotoli: il rimosso torna a galla, i processi familiari diventano cronache nazionali. Il conflitto si risolve subito nell’isteria, tra movimenti di macchina che definire accademici sarebbe un eufemismo e composizioni da tavola studiate come fossimo davanti a una trinità pastosa e fasulla.
Il segreto di una famiglia è un film già fatto, impostato, finito dalla prima inquadratura. Quello di Trapero si conferma un cinema asfittico che non ha mai bisogno del proprio spettatore. I legami familiari diventano puri pretesti narrativi che sanno esattamente dove andare a parare: sogniamo i territori del mélo ma ci troviamo nel dramma pesante (magari pensante!), quasi da camera, sciolto negli effetti di un ridicolo involontario. Il tutto ha l'andatura di un giudizio spietato sul mondo (senza avere però la radicalità di un afflato nichilista, la forza distruttiva del gesto iconoclasta). Qui il percorso non ha importanza, tutto corre dritto verso la meta, senza deviazione alcuna: ognuno ha i propri segreti da pagare e da espiare, ognuno le sue colpe e le sue debolezze. Il fatto - grave per un'opera come questa - è costruire un film sui legami affettivi scivolando poi nella fantascienza emotiva e psicologica. Il segreto di una famiglia somiglia infatti a un teatrino stanco, marmoreo, arrovellato su piccoli colpi di scena e rivelazioni dell’ultimo minuto.
Siamo in quel tipo di cinema in cui una madre riesce a dare della merda alla figlia e a ripeterle cento volte che non l’ha mai amata, trattandola alla stregua di un aborto vivente. Poi, ovviamente, quella stessa madre rimane sola, seduta in giardino: la macchina da presa è fissa, l’inquadratura bella e studiata a tavolino. Ecco il cuore del discorso: Trapero è un regista di cornici per cui il dolore non è stato uno stato esistenziale ma un contenuto forte da piazzare. Questo dolore dev’essere ben inquadrato, risolto nella composizione perfetta. E quando si tratta di affrontare di petto i conflitti, allora interviene un carrello a retrocedere, per fermare l'azione e crogiolarsi nella poetica del distacco. Un allontanamento continuo che tiene più a inquadrare che a raccontare, a dimostrare che a sentire.
Eppure all’inizio quel legame tra sorelle, quell’affezione erotica, ambigua ma innocente, faceva sperare in tutt’altro sviluppo. Trapero si lasciava andare, per un attimo, al corpo, alla carne delle immagini, ma subito dopo si allontana – ancora il carrello! – congelando tutto, trasformandosi in un voyeur freddo e analitico. Il conflitto non si fa mai reale, ma viene rimandato, progressivamente, fino a uno scioglimento finale che più patinato non si può.