Wasp Network
Un cinema apolide, senza fissa dimora, che attraversa confini, registri e generi diversi
La Habana, 1990. Il pilota cubano René González (Edgar Ramirez) sequestra un aereo per attraversare il golfo del Messico e raggiungere Miami, dove si trasferisce come dissidente al regime castrista. Lascia a casa la moglie Olga (Penélope Cruz) e una figlia, cui non anticipa la sua fuga da Cuba. Alcuni mesi dopo, stavolta via mare, lo segue Juan Pablo Roque (Wagner Moura), pilota come lui. Entrambi iniziano a frequentare un’organizzazione anti-castrista, per cui compiono una serie di azioni dimostrative per destabilizzare il governo cubano. Tuttavia, nell’apparente ricostruzione armoniosa del loro nuovo american way of life, qualcosa non torna. Quando entra in gioco Manuel Viramontez (Gael Garcia Bernal), un giovane diplomatico cubano inviato a Miami per coordinare una cellula di spie castriste sul territorio nordamericano, i dubbi vengono fugati: René, Juan Pablo e Manuel fanno parte della Wasp Network, letteralmente “rete di vespe”, un gruppo di agenti segreti castristi addestrati in madrepatria per infiltrare alcune organizzazioni di dissidenti cubani attive negli Stati Uniti, come gli Hermanos al Rescate di Jose Basulto.
«This is based on a true story». Con questa frase in sovrimpressione si apre l’ultimo film di Olivier Assayas, Wasp Network, presentato in Concorso a Venezia 76. Tratto dal libro di Fernando Morais Os últimos soldados da Guerra Fría: A história dos agentes secretos infiltrados por Cuba em organizações de extrema direita dos Estados Unidos, a sua volta ispirato alle reali operazioni di intelligence e controspionaggio tra Cuba e Stati Uniti negli anni novanta, il film tenta una prima storicizzazione cinematografica della fase terminale della Guerra fredda. Pur mantenendo saldo lo spirito internazionalista che contraddistingue il suo cinema, Assayas osserva la storia tramite la lente d’ingrandimento dell’amore: inteso sia come sentimento relazionale tra uomini e donne (il film ruota prima attorno alla famiglia di René e al suo rapporto, a distanza e poi ricongiunto, con la moglie e le figlia, poi a un matrimonio di circostanza di Juan Pablo con una ragazza locale), sia come spirito di sacrificio nei confronti di un’idea (il socialismo in recessione, più che la dedizione verso la”patria”).
Il cinema, per Assayas, è sempre stato un modo per attraversare i confini: da quelli geopolitici (pensiamo soprattutto alla miniserie Carlos, sempre con Edgar Ramirez protagonista) a quelli tra il mondo dei vivi e l’aldilà (Sils Maria e Personal Shopper), fino a quelli tra realtà e finzione (Double Vies) e alla consueta fluidità dei rapporti umani (Apres Mais). Un cinema apolide, senza fissa dimora, che in Wasp Network valica registri e generi diversi. La spiazzante voce fuori campo che irrompe dopo un’ora di film, a rivelarne in modo manifesto la natura politica, ribalta completamente non solo il senso delle azioni dei personaggi ma, sopratutto, i regimi di verità fin qui instaurati. Si passa da un racconto puramente di finzione a un ibrido tra ricostruzione e documentario, con inserzioni archivistiche e reenactment mediati degli schermi televisivi, intenti a verificare tutte le possibilità di quella «true story» annunciata. Così, come già in Carlos, assieme alla colonna sonora non originale dell’epoca, l’utilizzo del materiale d’archivio, reale o ricostruito, serve a collocare dei confini spaziali, geografici e temporali da far attraversare ai suoi personaggi.
La sequenza in cui due MIG dell’aviazione cubana abbattono tre aerei civili americani, presi in prestito dagli Hermanos al Rescate per compiere una missione dimostrativa non autorizzata sui cieli de La Habana, oltre a richiamare un episodio realmente avvenuto il 24 febbraio 1996, contribuisce all’ulteriore espansione dei registri narrativi e dei generi solcati. Si passa, anche qui, dal cinema ludico e d’intrattenimento (le scene action e thriller, le esplosioni spettacolari, l’utilizzo degli split screen depalmiani) alla tradizione del cinema politico europeo (nella sequenza degli attentati terroristici anti-castristi, La Habana rimanda esplicitamente all’Algeri di Pontecorvo), dalle digressioni più intime sul rapporto tra René, che in carcere decide di non collaborare, e la sua famiglia, “in ostaggio” del governo americano, fino a quello zoom sul fermo-immagine conclusivo che allude, ancora una volta, al cinema di genere e alla serialità televisiva poliziesca degli anni ottanta e novanta. Un film-contenitore, in cui Assayas decide di frullare il suo cinema con tutto quello che gli piace (e lo diverte), senza rinunciare alla solita, recente riflessione teorica sul rapporto tra media e mondo: dai già citati schermi televisivi, che inquadrano la storia e funzionano da contesto, ai cercapersone con cui rintracciarsi a vicenda, fino ad arrivare ai personal computer, entro cui vengono installati chip e virus a fini di sorveglianza, per concludere con l’arrivo dei primi telefoni cellulari.
Il video dell’intervista a Fidel Castro con cui (quasi) si conclude il film ribadisce gli intenti politici del suo autore: il paradosso per cui gli Stati Uniti, «il paese che fa più spionaggio al mondo», accusa di terrorismo Cuba, «il paese più spiato», non lascia spazio ad alcuna ambiguità, invitando gli spettatori a posizionarsi apertamente dalla parte dei subalterni, sconfitti da una storia che, finalmente, possiamo cominciare a rileggere.
Articolo scritto in collaborazione con Cinema e storia. Rivista di studi interdisciplinari.