Polonia, 1949. Wiktor (Tomasz Kot) e Irena, etnomusicologi a capo della compagnia Mazurek, viaggiano nelle campagne e nei piccoli villaggi del Paese per cercare ciò che resta della tradizione musicale folkloristica, volti, corpi, voci che possano far riscoprire una realtà in via d’estinzione. Nonostante l’intento primario promosso dalla scuola e dai due insegnati sia in linea con una ricerca etnologica atta a preservare e restaurare la tradizione popolare, a seguito del considerevole successo, la compagnia viene ingaggiata dal regime comunista e diventa strumento di propaganda. La ricerca e la riscoperta delle antiche origini e radici identitarie della Polonia si infrange in una fitta rete di negoziazioni e compromessi, che portano allo stravolgimento del repertorio musicale con l’inserimento di canzoni sulla riforma agraria o odi a Stalin e al regime comunista. Questo clima oppressivo e ricattatorio, fa da sfondo, ma anche da motore, alla storia d’amore tra Wiktor e una delle allieve della scuola, Zula (Joanna Kulig).
Dopo il successo di Ida, Premio Oscar nel 2015 per il Miglior Film Straniero, Paweł Pawlikowski torna con Cold War nel proprio paese d’origine (lasciato al tempo per conseguire gli studi in Inghilterra) e racconta una storia d’amore impossibile tra due anime tormentate e dislocate. Le vicende dei due protagonisti, come afferma lo stesso regista, si ispirerebbero, seppur a grandi linee, a quelle dei propri genitori, scomparsi prima del crollo del muro nel 1989. «Erano tutte e due persone forti e meravigliose, ma come coppia un disastro totale», ricorda lo stesso Pawlikowski. La narrazione abbraccia un arco temporale di quindici anni, uno svolgimento sequenziale in cui vengono colte delle istantanee, momenti fugaci, incontri/scontri di questa coppia che non riesce a trovare stabilità in terra straniera. Wiktor ormai è diventato un apolide, fuggito dal proprio Paese oltrepassando la cortina di ferro, mentre Zula è rimasta intrappolata nelle maglie del blocco sovietico. Pawlikowski rigetta le grandi narrazioni storiche per concentrarsi invece sui mutamenti personali e privati, in stretta interconnessione, tuttavia, con quelli collettivi e pubblici.
La musica assume un ruolo centrale nel film, cogliendo i cambiamenti e le trasformazioni sociali, e assumendo il ruolo di mediatore della memoria, strumento atto a contribuire alla definizione e ridefinizione dei caratteri identitari, dell’immaginario collettivo e della memoria nazionale e culturale – come il cinema, una forma di riscrittura storica e mnemonica. La liturgia del regime provvede alla distruzione, alla manipolazione e alla falsificazione dell’autenticità della memoria culturale.
Come per il suo film precedente il regista adotta il formato 1:1.33 (Academy format) comprimendo l’azione in uno spazio molto ristretto, avvicinando le figure e dando notevole importanza al fuori campo. Tuttavia, a differenza di Ida, Pawlikowski non ricorre a piani sequenza contemplativi con inquadrature fisse ma la macchina da presa viene trasportata dal virtuosismo e dall’energia della musica e dalla protagonista del film. La dialettica tra campo e fuori campo si evince specialmente a livello sonoro, la musica scandisce i momenti di sviluppo narrativi e di contaminazione culturale, dal folklore delle campagne in Polonia al jazz, dal rock dei locali Parigini alla canzone italiana con 24mila baci.
La contingenza storica è comunque presente, tra costruzione e smantellamento, lo spazio suburbano diventa paesaggio fisico, sociale e psicologico riflettendo la crisi dei valori riguardo le relazioni personali di due amanti persi a vagabondare. La memoria personale è anche la memoria del luogo, macerie e rovine del tempo passato, lasciti della tempesta del progresso che confina i protagonisti in una condizione di isolamento. L’erosione e la perdita del senso di appartenenza e identità ad un particolare luogo, così come il sentimento di pericolo e preoccupazione (desolazione psicologica) risulta evidente nella scena finale, dove in una chiesa ormai distrutta dal fuoco della guerra la coppia celebra il proprio (impossibile) amore. Sempre in movimento fuori e dentro l’inquadratura alla ricerca della vista migliore sulla natura delle cose.