The Perfect Husband
Lucas Pavetto con le accortezze del regista capace mette in scena un film a due velocità con qualche ingenuità di troppo
Due giovani innamorati che progettano un futuro sono un simbolo universale di letizia, ma la morte perinatale di un figlio desiderato è un turbamento troppo significativo per essere superato senza sequele. Ne è consapevole Lucas Pavetto che in questa declinazione matura di un suo precedente lavoro (Il marito perfetto, mediometraggio del 2011) usa le premesse più efficaci per il thriller psicologico sulla vita di coppia. Viola e Nicola si occupano del loro matrimonio cercando di superare il recente lutto, perciò si recano a trascorrere il fine-settimana nella casa in campagna dello zio di lui. Da subito si percepisce che qualcosa non funziona tra loro, i quali portano avanti piccoli segreti e incomprensioni in un clima di incomunicabilità. La tensione tra i due sale, e quando lei, ferita nel bosco, viene riportata a casa da una guardia forestale il punto di rottura sembra raggiunto; non è così. La storia infatti procede ancora a lungo e il quadretto del marito perfetto che ricostruisce il rapporto con una donna turbata viene ricamato in eccesso, essendo già ben delineato dopo i primi quindici minuti. Questa lentezza del tempo del racconto è un limite insormontabile dell’opera, ma permette di apprezzare la sofisticata fotografia e le ambientazioni naturali e perfette in contrasto con la psicologia indefinita dei protagonisti. Il film fatica a intrattenere nonostante la costruzione sapiente delle dinamiche di coppia. Tanto nei momenti di conflitto che in quelli di complicità le emozioni tra i due protagonisti sono come sfiorabili dimostrando una matura sensibilità artistica; parte del merito è anche degli attori che hanno i volti giusti e sanno reggere pressoché da soli la storia, ostacolati da dialoghi prevedibili.
Quando ormai l’attenzione dello spettatore è persa il film ha la sua impennata e ci mostra la violenza domestica che ci aspettavamo sin dal titolo. La seconda metà dell’opera diventa così uno splatter in cui Nicola armato di accetta insegue la sua Wendy con una camminata da zombie, rivelandosi l’imperfetto marito violento e psicopatico che si era atteso a lungo. Inizia così un valzer di dita mozzate, coltellate negli occhi, stupri selvaggi e braccia tranciate, che allieta anche gli spettatori più suscettibili perché qualcosa finalmente sta succedendo. Il cambio dei toni purtroppo esaspera la già notevole distanza tra forma e contenuto del primo tempo. Immagini angoscianti ben realizzate danno corpo a una sceneggiatura che si rivela dissennata e a tratti superficiale in cui non trovano soluzione alcune sotto-trame accennate e poi abortite come i ritrovamenti di animali morti nel bosco o lo scanzonato amico del protagonista a cui si è dato troppo spazio in apertura. Ma c’è ancora margine per peggiorare. Quando il film sembra concluso un improbabile flashback ribalta nuovamente la situazione e con uno spiegone da sceneggiato tv si scopre che Viola è unicamente colpevole di tutte le efferatezze e ciò che si credeva reale fino a poco prima è solo il punto di vista distorto del suo stato dissociativo.
Questo finale, che allontana dal film la tematica sociale della violenza sulle donne, assesta un duro colpo all’opera. Tutta la meticolosa costruzione psicologica del thriller si annienta in un colpo di scena che vuole creare la sorpresa, ma non lo fa ripercorrendo lucidamente una serie di indizi, bensì stravolgendo le carte in tavola con un espediente facile. Alla fine sopravvive il cattivo, Viola, e sopravvive a tratti il tocco fluente della regia, sperando di avere archiviato questa storia senza un sequel perché questa volta più che un colpo di scena sarebbe un colpo basso.