Perfidia
La mancanza di risposte di un ragazzo sardo nel grigiore di un Paese che pone sempre e solo le stesse domande
E al mare, specchio del mio cuore
Quelle volte in cui mi ha visto piangere
Le perfidia del tuo amore.
Nat King Cole – Perfidia.
Cantava così, Nat King Cole, un testo scritto da Alberto Domìnguez e pubblicato nel 1939, poi riproposto da numerosi celebri cantanti. Un testo che canta la perfidia di un amore, di una salvezza ricercata nell’amore sperato, e per estensione nel film, che canta della perfidia del mondo che ci circonda, un mondo ricco di amore, di critianità, di misericordia e redenzione, un mondo carico dei buoni sentimenti riciclati, perfido come lo sguardo del demonio. Questa è la base musicale ascoltata dal regista sardo Bonifacio Angius, da cui deriva il titolo del suo secondo cortometraggio, Perfidia. Filmografia, quella di Angius, iniziata nel 2010 con un lungometraggio folgorante, SaGràscia, un road movie metafisico, onirico, che attraversa la sua Sardegna in una pellegrinaggio addormentato, protagonista un bambino, la fede cristiana e l’isola, raccontata come se si attraversasse un paese delle meraviglie frequentato da figure altrettanto meravigliose. C’è sempre la Sardegna come sfondo anche in Perfidia, ma una Sardegna diversa, un’isola circondata non solo dal mare ma anche dalla provincia, grigia, piovosa, senza alcuna redenzione. Il racconto è diverso, la base è di stampo verista e meno immaginifica, il regista ci racconta una piccola storia struggente, presentandoci il rapporto padre-figlio tra il trentacinquenne Angelo (Stefano Deffenu), bambinone disoccupato senza un desiderio, senza uno scopo da raggiungere per il futuro, senza nessuna risposta a qualsiasi semplice domanda, ed un padre (uno straordinario e toccante Mauro Olivieri alla sua prima interpretazione cinematografica) ormai anziano, con una vita passata tra favori avuti e dovuti, una vita passata avendola vissuta nei sotterfugi del potere regionale, sempre nell’ombra del favoritismo e del clientelismo. Un padre in cerca di un lavoro per il figlio avvolto dalla disperazione per l’incapacità del figlio di crearsi un futuro con le proprie mani, preoccupato per la sua salute che confina con la preoccupazione per la stabilità economica, sociale ed affettiva del figlio. Intorno al loro rapporto ci sono gli amici di Angelino, tutti nullafacenti che bevono birra in un piccolo bar di provincia, passando il tempo a giocare a carte o spendendo soldi alle slot machine. Solo uno di loro, il più fortunato, ha una moglie, un lavoro nell’azienda del suocero, una macchina nuova, addirittura un figlio. Personaggio quest’ultimo odiato dal gruppo di amici, riconoscendo in lui una loro speranza annegata al tavolo del bar, ma portato ad esempio, con invidia, dal padre di Angelo. Sarà su di lui e sulla sua stabilità che il rancore e la frustrazione del gruppo si riverserà. Il film continua incupendosi sempre stretto dal tono di grigio provincialismo, l’invalidità totale del padre lascerà Angelo alle prese con la responsabilità, ma lui non sarà capace di farlo, perché quello che di lui rimarrà senza il padre, continuerà ad essere solo l’incapacità cronica di responsabilizzarsi; mostrandoci un figlio incapace di badare a se stesso con un padre a cui badare. E poi c’è la versione cattolica dell’Italia intera, c’è Radio Maria, il vangelo, il padre nostro, un vincolo delle fede letto come uno sberleffo, un Dio distante ma sempre presente nella casa, in macchina, così come le partite di calcio trasmesse in televisione. In una scena addirittura i due campi sonori si intrecciano, in una stanza viene trasmessa la partita mentre nell’altra il Credo, ed i due campi sonori si mescolano come a sottolinearne la totalità dell’informazione disponibile e scelta dai protagonisti. Poi c’è l’idea che Angelo si fa della fede, dove se sei cattivo Dio ti premierà così da poter diventare buono e se sei buono Dio ti punirà per farti diventare cattivo, in un circolo vizioso dove il buono ci rimette mentre il cattivo ne gode. Ed è in questo il messaggio del film. Angelo sogna una vita serena, sogna una donna, un matrimonio, una stabilità affettiva ma non riesce a rapportarsi con una donna; la ventenne che conosce cercando prima di conquistarla puerilmente, con dei giochi infantili, poi il luna park, le giostre, non riuscendo a conquistarla come donna, o quantomeno come ragazza vista la differenza di età, lasciando che lei si accorga della vita che ad Angelo appartiene, della sua disperata intimità famigliare.
Un’altra sconfitta, forse l’ultima, forse no, ma oltre al danno c’è la beffa, il padre, ormai totalmente invalido, vincerà le elezioni ed entrerà a far parte del consiglio comunale, potendo trovare al figlio un posto di lavoro in un ufficio, ma ormai è troppo tardi, la sfortuna mantiene sempre l’ultima parola. Solo il gesto finale e liberatorio di Angelo, un gesto peccaminoso, vergognoso, farà girare la ruota dalla sua parte convalidando l’idea precedentemente espressa, oramai peccatore Dio gli concede la possibilità di vincere al gioco e noi speriamo che questo torni a renderlo buono, ma forse non sarà così. Mentre il padre, grande peccatore, sarà divorato dall’odio nei confronti della società, dall’odio per il suo disgraziato figlio, dall’invidia nei confronti di chi già possiede qualcosa di stabile, dall’incapacità di vedersi vecchio e morente, con alle spalle una vita vissuta forse da vincente ma anche una vita grigia passata con la schiena piegata e le mutande abbassate, che alla fine non avrà nessun bel ricordo da rivivere, distante con il pensiero, mentre vive la sua vecchiaia. Come a volerci dire che sì, la precedente equazione è giusta, ma anche che la vita, per come la si è scelta di vivere, la si può giudicare solo alla fine del proprio percorso. Bonifacio Angius ci presenta un’opera struggente, raccontata in maniera semplice, lineare, densa di verismo acre (vedesi anche l’uso del dialetto sardo), unico film italiano in concorso al Festival di Locarno, Perfidia è un’opera che pone delle domande, “solo delle semplici domande”, talmente facili da non essere intese (soprattutto da Angelo), domande troppo semplici senza una semplice risposta, ma dove forse è giusto così, perché se non si ha l’obbligo di capire il senso della domanda, si può certamente vivere meglio la mancanza di una risposta, soprattutto se si vive in un Paese che non ha più niente da chiederti.