Philip K. Dick's Electric Dreams / Episodi 1-6
Nonostante alcune incertezze nella messa in scena, i sogni elettrici di Dick convincono e affascinano.
Per gli amanti della fantascienza, l’ultimo decennio è stato ricchissimo di soddisfazioni. Una nuova generazione di autori e idee si è affacciata sulla scena artistica e, al contempo, molti classici sono stati adattati per il grande e il piccolo schermo, per non parlare degli altri media, o rigenerati con sequel o reboot. Sembrerebbe un’età dell’oro, non fosse per il fatto che forse, in tutta questa fantascienza, l’eterno assente sembra proprio il futuro. Il futuro inteso come progettualità, come eccitante attesa di nuovi percorsi e nuove domande, sembra ridotto a un’ombra lontana.
In questa messe di fantascienza distopica e apocalittica, il ritorno a un autore come Philip K. Dick non è così sorprendente. La sua fantascienza preconizza la letteratura cyberpunk e postmoderna: esce dai rigidi confini di genere che abbiamo imparato a riconoscere, è indisciplinata e si lancia in incursioni verso forme e generi letterari anche molto lontani. L’immaginario di Dick (e non solo: si pensi anche ad Asimov, a Crichton e ai loro recenti ritorni audiovisivi e videoludici) è ancora vitale, trascende la sua epoca e nasce poroso, pronto per nuove ibridazioni e interpretazioni.
Philip K. Dick’s Electric Dreams cerca di catturare lo spirito dell’autore attraverso un serie antologica di dieci episodi di cui solo i primi sei sono usciti nel 2017. Le storie sono tratte dai suoi racconti brevi; pezzi relativamente meno noti all’interno della torrenziale produzione dello scrittore di Chicago.
Le storie di Electric Dreams sono diversissime tra loro per genere, tematiche e persino per filosofie di messa in scena, e spaziano dalla fantascienza sociologica di The Hood Maker al grottesco Crazy Diamond, all’umanesimo paradossale di Impossible Planet e Human Is. Ognuno di questi episodi è densissimo di tematiche e suggestioni, necessariamente ellittico nella narrazione e di difficile interpretazione: The Hood Maker tocca tematiche quali terrorismo, immigrazione e convivenza tra popoli (in questo caso, umani e telepati) in un contesto di discriminazione urbana, il tutto con una cornice poliziesca; molti di questi temi sono trattati anche negli episodi seguenti, ma con esiti e sguardi del tutto diversi. La visione di tutte le puntate dispiega un caleidoscopio di meraviglia e inquietudine.
Il paragone con Black Mirror è inevitabile, ma rischia di essere fuorviante: Electric Dreams è lontano dall’orrore del progresso, dai presenti alternativi fatti di reality show e nanomacchine assassine. Il futuro di Black Mirror è horror e thriller, mentre Electric Dreams mette in scena una fantascienza filosofica che non risponde a un genere specifico.
Più che a Black Mirror – serie molto più coesa, al punto che si potrebbe parlare di uno "stile" condiviso tra le varie puntate– viene da pensare a certi film a episodi italiani degli anni Sessanta, diretti da autori diversi ma con tematiche comuni, come Boccaccio’70 o Le bambole. Ad esempio, tra David Farr, che ha diretto Impossible Planet (e che conosciamo per The Night Manager), e Marc Munden, regista di Crazy Diamond e autore della serie Utopia per Channel 4, le differenze sono notevoli: Electric Dreams incoraggia questa distanza e lascia che gli accostamenti tra estetiche e storie diverse siano evidenti e in dialogo tra loro.
Purtroppo, non tutti gli episodi di Electric Dreams riescono a raggiungere il loro obiettivo. Ciò non avviene a causa della succitata mancanza di coesione, quanto nell’aver trascurato un aspetto fondamentale della fantascienza dickiana: la dimensione grottesca e indisciplinata della sua scrittura. Molti degli episodi di Electric Dreams sono tremendamente sobri: una linearità e una serietà che, con poche eccezioni (che iniziano e finiscono con il quarto episodio), caratterizza la messa in scena dell’intera serie. Le idee più stravaganti ne escono depotenziate, in quanto poco credibili e troppo "fuori dal mondo" per innescare la sospensione dell’incredulità. Considerati anche i limiti produttivi (alcuni episodi avrebbero beneficiato di budget molto superiori), la freddezza della messa in scena ostacola, in alcuni casi, l’espressione e il coinvolgimento dello spettatore.
A compensare, almeno in parte, è la forza delle interpretazioni attoriali che riempiono i vuoti emotivi e produttivi: le performance di giganti come Geraldine Chaplin, Bryan Cranston, Steve Buscemi e Timothy Spall sono intense e, in alcuni casi, capaci di trasformare un episodio inconsistente in una visione memorabile incarnando le emozioni che faticano ad emergere dagli altri elementi della messa in scena.
Nonostante i limiti, Electric Dreams è un prodotto che merita la nostra attenzione. Come il suo autore, sa essere sublime o reticente; pone domande sconvolgenti, ma corre il rischio di perdersi nelle proprie contraddizioni. Un soggetto problematico e, proprio per questo, terribilmente affascinante.