Pilot / The Man in the High Castle
''La realtà è quella cosa che, anche se smetti di crederci, non svanisce.''
2015. L’azienda leader mondiale nel commercio elettronico, più volte accusata di controllare e intimidire i dipendenti servendosi di vigliantes neo-nazisti, decide di invadere il mercato delle serie tv e di mettere in Rete un episodio pilota incentrato sui nazisti che dominano l’Occidente negli sweet sixties, affidando al giudizio sovrano degli internauti la possibilità di sviluppare successive puntate.
Sembra fantascienza, quindi sembra un romanzo di Philip K. Dick, e infatti si parla di The Man in the High Castle, la miniserie in 4 puntate che Ridley Scott produrrà per Amazon Studios, qualora il famigerato pollice di gradimento della rete dovesse volgersi al verso giusto. Finalmente Dick, Dick l’ipertrofico, Dick il compulsivo, Dick il Tutto, preso dal cinema e pure vilipeso, dalla TV non ancora, se pure questa è ancora da definire TV e non qualcosa di diverso, home series no, perché la puoi portare con te, own series più corretto, on demand perché sottoposta, forse, al tuo consenso proattivo. Dick the biggest, il Dick più grande, che dal sottosuolo scrive le pagine più allucinanti della letteratura del ‘900, riempiendole di tutte le sue ossessioni: la nazistificazione dell’Occidente, l’alienazione del presente, la benzedrina, i simulacri, la paranoia della precognizione. The Man in the High Castle, ovvero il presente ucronico, prima del futuro distopico. La svastica sul sole, questo il primo titolo italiano dell’edizione in simil Urania, L’uomo nell’alto castello nelle successive edizioni, più rispettose della lettera.
Si è nel 1962, gli Alleati hanno perso la Guerra, i Nazisti e i Giapponesi regnano in tutto il mondo. Spicchi di Stati Uniti come una enorme Berlino, a Ovest il Sol Levante e ad Est la Svastica, in mezzo una zona finto neutrale. La resistenza c’è ma arranca intorno ad un libro messianico, Grassopher never lies (La Cavalletta non si rialzerà), che riscrive la storia e afferma la vittoria di Churchill, Stalin e Roosevelt. Il contesto è protagonista prima e più dei personaggi, che pure spiccano fulgidi come il Ministro giapponese cospirazionista Tagomi, ossessionato dal passato in forma di memorabilia che colleziona, angustiato dal futuro in forma di I-Ching che compulsivamente consulta. Svastica e sole invece di stelle e strisce, Sieg Heil, l’episodio pilota parte da qui. In cabina di regia David Semel (Beverly Hills 90210, Dr.House ma anche Homeland, Hannibal, American Horror Story, The Strain), professionista più che mestierante del piccolo schermo, del suo territorio conosce anche i più reconditi anfratti e sa come saturarli per impressionare, chissà, anche per disturbare. Andiamo a guardare: zio Adolph è un lider maximo alla crucca, onnipresente in mille e un video e cartelloni pubblicitari, la Svastica è ovunque, a Times Square, nei cinegiornali, per strada, sulle giacche, sui telefoni pubblici, meno presente appare il Sol Levante (forse per pudore verso le vittime nipponiche della Bomba). La svastica sulla bandiera è una vergogna, una sevizia, un marchio a fuoco impresso sulla pelle degli USA che non ci stanno e urlano di dolore, risulta infatti che l’audience americana abbia reagito con sgomento e disappunto a tale visione sovversiva, perché è il simbolo che fa il Potere, diceva Marx, cancellato uno si distrugge l’altro. La confezione è quindi efficace ed efficiente: se però si sposta la svastica, si prova a vedere l’episodio, cominciano ad affiorare i problemi di una sceneggiatura che è un adattamento a firma Frank X-Files Spotnitz.
Per prima cosa il libro, Grassopher Never Lies, qui diventa un super8 pirata, recante vere immagini da cinegiornali di repertorio sui giorni che precedettero i Trattati di Parigi. L’espediente visivo appare necessario, nondimeno sottrae alla narrazione il fascino della carta che scotta, trait d’union esegetico tra Dick e il Bradbury di Fahrenheit 451. L’ambientazione poi, sotto i vessilli della vergogna, è una bolla di vetro, uomini e mezzi si muovono meccanici come marionette, l’occhio mai è in campo lungo, sembra un paradosso dickiano riuscito a metà, realtà di cartapesta senza allucinazioni da svelare. Niente pare vivo, neppure la violenza, la cui rappresentazione è pudicamente - patriotticamente? - omessa a favore di un fuoricampo non significante. Dove l’episodio pilota precipita in picchiata è nella reinvenzione dei protagonisti: Tagomi la sfanga pressoché indenne, gli altri cambiano nomi e parentele, se non anche mansioni, rispetto al romanzo, con l’obiettivo di concentrare il focus su poche linee narrative, la spia e la fuggiasca e il complottista, per indorare la pillola lisergica al grande pubblico. Questo è troppo poco. Ultimi, in questa trattazione e nella nostra considerazione, vengono gli attori: bellini, volenterosi, ma tanto facce troppo pulite e precise, troppo televisive, a spese del coinvolgimento e della suspense. Il giudizio pertanto, forzatamente sommario, è che ancora una volta Dick sia confinato nella mediocrità di prodotti replicanti. incapaci di coglierne appieno l’afflato, quella mescolanza di “teoria del complotto, estasi della persecuzione e ciarlataneria religiosa“ (Johnatan Lethem) che ne pervade le opere e che le fa percepire vive, vivissime, in un mondo di morti.