Sopravvissuto - The Martian
Si va dalle cronache di Bradbury alla razionalità di Asimov, ma in definitiva The Martian è un pamphlet sull'ottimismo e l'intraprendenza dell'uomo, rovesciamento del dramma in commedia slapstick.
Sopravvissuto – The Martian di Ridley Scott potrebbe sembrare un frammento perduto delle cronache marziane narrate da Bradbury, rivisitazione del mito della frontiera attraverso la lente dell’esplorazione spaziale.
Magari uno di quei capitoli iniziali dedicati all’arrivo dei primi esploratori, solo che qui non ci sono alieni da sterminare a colpi di morbillo come con gli indiani, non c’è una storia nazionale da rileggere alla luce delle colpe storiche di un intero paese.
Evasa una coazione a ripetere che sveli gli orrori di un passato glorificato (come faceva l’opera di Bradbury e tanta successiva space-opera degli anni Settanta), qui l’uomo si confronta con l’essenza del proprio essere, scopritore, inventore, creatore. Di fronte il campo lunghissimo dell’orizzonte su un pianeta deserto, con l’unico limite rimasto che è quello del proprio sguardo (del resto questo stesso concetto di confine, questa tensione e necessità di scavalcamento, non attraversa forse tutto il cinema di Scott?)
Tuttavia la minaccia non viene più incarnata da xenomorfi e corporazioni spaziali, qui è lo spazio stesso, il rosso terriccio del pianeta deserto, a porre la sua sfida di sopravvivenza. E ad essa bisogna rispondere, con la scienza dell’intelletto ma soprattutto la volontà dell’animo, energia vitalistica di un moderno Crusoe che non lascia spiragli alla disperazione e al dramma.
Dopo Tomorrowland e Interstellar sembra che ad Hollywood la fantascienza stia ambendo a lambire le coste – tradizionalmente letterarie – di un positivismo energico e ottimista, che guardi al dramma del contemporaneo per opporvi un senso di riscatto umanista, primigenio, non a caso radicato, in Nolan e in Scott, nel mitologema del pioniere.
Da questo punto di vista The Martian è il film più compiuto e consapevole di tale riscatto, che sposa a tal punto da trasformarsi in commedia. L’ultimo uomo su Marte, il superstite assoluto, diventa nel volto plastico di Matt Damon un personaggio da sit-com, corpo slapstick che alterna ironia e scienza senza soluzione di continuità. Eccola la vera rivincita del nerd, fuori dal macchiettismo più facile e dentro una naiveté per molti versi spielberghiana. Ancora Matt Damon da salvare, ancora il cuore di un uomo che sa di poter morire per qualcosa di più grande e importante di lui, e che da tale consapevolezza trae l’energia necessaria a dissolvere ogni traccia di disperazione.
Praticamente la razionalità illuminata di un personaggio di Asimov (nella cui fantascienza non è mai mancata l’ironia), una lucidità che Scott e il sempre più bravo Drew Goddard decidono di riportare affidandosi soprattutto ad una lunga sequenza di videodiari, found footage marziano con il quale The Martian trasporta nello spazio la cifra più intima del contemporaneo, la sua pervasiva possibilità di registrazione.
In una scena in particolare la camera inizia un lento zoom-in che viaggia dentro lo schermo registrato ma non finisce mai per attraversarlo, mantenendo invece la cornice del mezzo, il filtro di uno sguardo elettronico ineludibile anche e soprattutto nello spazio. Ecco così moltiplicarsi anche le soggettive delle camere di registrazione dei caschi,delle riprese a circuito chiuso della base, a rimarcare come oggi non possa esistere frontiera, esplorazione, racconto di sé, senza l’occhio tecnologico.
Anche la lotta per la sopravvivenza e la fede più umanista per la sorte dell’altro passano per l’esercizio di pixel su uno schermo.