A pugni chiusi
Non solo il riuscito ritratto di un eccezionale attore, ma uno spazio sensibile che accoglie le riflessioni e le confessioni di Lou Castel come uomo
Consacrato giovanissimo da Marco Bellocchio con I Pugni in tasca, Lou Castel è stato un attore estremamente versatile, dall’energia inarrestabile e prorompente, che ha recitato nel corso del tempo in circa un centinaio di film, diretto da grandi registi italiani (Scola, Lizzani, Cavani, Damiani, Monicelli, Sordi) e stranieri (Wenders, Fassbinder, Chabrol).
Pierpaolo De Sanctis, studioso di cinema e autore di diversi saggi oltre che documentarista, descrive le tappe del percorso creativo dell’attore alternando interviste e filmati di repertorio nel suo A pugni chiusi, presentato alla 34ª edizione del Torino Film Festival. Molto più che il riuscito ritratto di un eccezionale attore, il documentario di De Sanctis è uno spazio sensibile che accoglie le riflessioni e le confessioni di Castel come uomo: la formazione con Alessandro Fersen e prima ancora i ricordi – non sempre sereni - dell’infanzia; il racconto della sua lunga militanza politica – dall’adesione a “Servire il popolo” fino all’espulsione dall’Italia avvenuta a pochi anni di distanza, nel 1972; le aspettative e i progetti mai realizzati (come quello di diventare regista) e infine il rapporto con una città, Roma, dove l’attore si è inizialmente sentito straniero, ma che tuttavia oggi sembra avere acquisito un ruolo centrale nel suo vissuto e nella sua memoria. Ed è ancora Roma a fare da sfondo alle lunghe interviste che compongono il film, una Roma autunnale, periferica, a tratti desolata eppure non priva di fascino, per forza di cose pasoliniana, dove i profili dei palazzi – incombenti, sgraziati, massicci – mordono il verde della campagna, già costellato di rovine post-industriali.
In parte grazie all’approccio di De Sanctis, discreto fin quasi all’invisibilità ma al contempo attentissimo nel gestire e plasmare con cura e agilità la materia trattata, in parte grazie al magnetismo innato di Lou Castel, A pugni chiusi diventa per l’attore una personale skenè, un luogo dove il protagonista irriverente e provocatoriamente ambiguo del caustico esordio bellocchiano può, in piena libertà e in totale spontaneità, ancora una volta mettere in scena se stesso, per condividere con lo spettatore, autenticamente, non solo il racconto della propria vita ma – di più – la sua personale visione delle cose, il suo modo di sentire e guardare il mondo. Assieme disincantato e romantico, istrionico e (auto)ironico, Castel si lascia cullare dai ricordi, restituendo, quasi in un flusso di coscienza, tutta la complessità di una vita vissuta pienamente, senza mai cessare di interrogarsi sulle necessità della lotta politica, sulle specificità del suo ruolo di attore, sull’essenza ambivalente del cinema che è assieme merce e industria da un lato ed espressione artistica e autoriale dall’altro. Lapidario e lucidissimo quando afferma che “il film commerciale accelera la tua degradazione come individuo”, categorico e incisivo quando descrive Hollywood come luogo alienante e spersonalizzante, Lou Castel si racconta insomma come un uomo dalle identità molteplici, sempre perfettamente consapevole delle contraddittorietà irriducibili del reale; un Ulisse in eterno movimento nel mare vastissimo e tumultuoso del cinema (e della vita) che però, a ben guardare, non ha mai perso la rotta: un uomo contro per vocazione, mai – sterilmente e artificiosamente – per capriccio. Contro in nome di una coerenza radicale e imprescindibile, la stessa che lo porta ad affermare, con amaro umorismo e “antidarwiniana” passione, che in definitiva adattarsi alla realtà equivarrebbe al suicidio.