Qualcosa di noi
Un eterogeneo gruppo di giovani aspiranti scrittori e una prostituta: un tentativo di confronto e dialogo .

Un gruppo di persone, per lo più giovani aspiranti scrittori, incontra una donna che ha scelto di prostituirsi per vivere. Adulta, consapevole, sicura di sé, Jana è tutt’altro che una persona emarginata che vive ai limiti della società: ha un compagno, due figli, una bella casa, una madre che pian piano si è rassegnata al mestiere che fa e l’ha “perdonata”, come lei afferma. I ragazzi che, ora incuriositi ora indecisi, aprono con lei il dialogo che costituisce il cuore di questo documentario, provengono dalla scuola di scrittura bolognese Bottega Finzioni. In un contesto bucolico e rilassante provano a mettersi a nudo e a ragionare, assieme a Jana, su loro stessi, sulle proprie idee, sulle prospettive per il futuro. Con timide domande cercano di fare emergere la propria curiosità e con grande disinvoltura e ironia Jana risponde e si racconta, in positivo e in negativo, rispetto alle sue scelte di vita.
La regista Wilma Labate viene da un percorso cinematografico consolidato e articolato – ha iniziato a fare cinema negli anni Novanta – entro il quale ha alternato la fiction (La mia generazione, Signorinaeffe) al documentario (Un altro mondo è possibile, Genova. Per noi). Anche il suo ultimo lavoro si pone l’obiettivo di raccontare e testimoniare un brano di realtà, da un punto vista intimo attraverso cui passa però in parte un discorso anche sociale, ma nel finale Qualcosa di noi si ibrida, con una virata non troppo dolce, con la fiction.
Dopo una discreta prima parte in cui sono predominanti i dialoghi tra Jana e i ragazzi, vediamo tutti recarsi al Teatro Valle, dal momento che una delle allieve di Bottega Finzioni, che sogna di diventare attrice, è tra i suoi occupanti. Qui il film si chiude su una scena di corteggiamento “costruita” e recitata, che paradossalmente appare più verosimile e credibile di molti passaggi puramente documentaristici presenti nella prima parte.
Questo aspetto del film – la poca spontaneità, per così dire, di cui in parte la messa in scena soffre - che a tratti risulta un po’ fastidioso, si rivela e si concretizza in una serie di cose: alcuni ragazzi, forse troppo “innamorati” dell’occhio onnipresente della macchina da presa, si lasciando andare ad atteggiamenti artificiosi e pose che qua e là si fanno purtroppo spia un di pensiero adolescenziale a cui resta difficile non rimproverare una certa superficialità (c’è chi si lamenta di essere stato “troppo amato” da “splendidi genitori” e chi si definisce in tutta sicurezza “scrittrice” pur non avendo mai pubblicato nulla). Le voci fuori dal coro ci sono (chi si interroga sulle cose e anche sul documentario in atto in modo più serio e critico) ma ad esse viene concesso meno spazio.
Dal canto suo, Jana da un lato riesce a catalizzare e attirare fortemente su di sé tanto l’attenzione spettatoriale quanto lo sguardo registico – per la sua fisicità e il suo modo di essere – ma dall’altro sembra, al pari dei ragazzi, troppo presa dall’intento di offrire una precisa immagine di sé per offrirsi in modo completamente sincero alla macchina da presa.
Tutto ciò anzitutto sottrae naturalezza alla messa in scena, e in secondo luogo impedisce ai discorsi che vengono messi in campo di librarsi in territori più ampi, di scendere sotto la superficie.
Sembra infatti che tutto si riduca a una scelta “morale”: optare per i “soldi facili” o lasciarsi schiacciare da un sistema economico entro cui è difficile restare a galla con un lavoro “onesto”. O ancora: fino a che punto è legittimo fingere con i clienti, per soddisfare un bisogno che non è solo erotico ma in ultimo anche affettivo? In quanti e quali modi, all’interno di una relazione, tutti noi fingiamo? Ora, se è vero che queste questioni esistono, che queste domande sono legittime, è vero anche che molto altro viene lasciato completamente fuori campo.
Forse un maggiore approfondimento del quadro delineato nella prima parte avrebbe giovato e avrebbe conferito al documentario più spessore, più sostanza; a questa ipotesi viene invece preferito il breve tour al Teatro Valle, che aggiunge e rivela davvero poco dei personaggi, e spinge improvvisamente a margine quello che era stato, fino a quel momento, il fulcro del film.
Peccato, perché l’idea di partenza è interessante, feconda, poco praticata e capace, se esplorata e sviscerata al meglio, di aprire orizzonti vastissimi: su un piano intimo e personale, psicologico ed emotivo come su un piano socio-culturale.