Rabies

Il primo horror nella storia del cinema israeliano, ovvero un trattato sulla banalità del male sagacemente camuffato da slasher.

Non ci si lasci fuorviare dal titolo internazionale inglese, Rabies, di questa insolita – e sicuramente inedita, ai tempi dell’uscita del film nel 2010 – incursione del cinema israeliano nei territori dello slasher, perché il corrispettivo termine latino r?b??s, nel suo decisamente più ampio spettro semantico, rende assai meglio ragione degli intenti e degli esiti di questo piccolo gioiello horror. Se infatti il termine anglofono, accanto al suo omologo ebraico ????, kalevet (che è anche il titolo originale del film), designa esclusivamente la patologia virale da noi nota come “rabbia”, quello latino indica anche l’ira, il furore, la follia omicida (quindi la rabbia come condizione dell’umore, come stato emotivo), oltre che, non ultima, la frenesia amorosa. Vista anche la provenienza accademica dei due registi del film (all’epoca dell’ideazione di Rabies, Aharon Keshales teneva corsi di cinema presso l’Università di Tel Aviv, mentre Navot Papushado era un suo allievo), non va esclusa la possibilità che entrambi, nello scegliere il titolo del proprio esordio nel lungometraggio, abbiano tenuto in debita considerazione il termine latino, con tutte le sue molteplici implicazioni.

Il vero filo conduttore di Rabies sembra infatti situarsi in un intricato gioco di ruolo, la cui posta è il dominio sull’altro a livello percettivo, verbale e fisico, con in più un accento insistito sulla componente erotica e pulsionale dei rapporti fra i personaggi. I due registi scelgono di ambientare la vicenda in un contesto labirintico e circoscritto (una riserva per animali, irta però di trappole mortali da caccia e da guerra), in cui le debolezze umane trovino terreno fertile per deflagrare in tutta la loro sconcertante carica distruttiva, e optano per una costruzione narrativa a incastro, in cui gruppi differenti di personaggi incrocino le rispettive strade e, con ciò, vedano stravolte le proprie vite per sempre. A intrecciare i propri destini saranno uno stralunato killer (Yaron Motola); una coppia di fratelli legati da un affetto morboso, Ofer e Tali (Henry David e Liat Harlev); un guardiacaccia (Menashe Noy); quattro ragazzotti di buona famiglia – di cui due maschi, cioè Pini (Ofer Shechter) e Mikey (Ran Danker), e due femmine, Adi (Ania Bukstein) e Shir (Yael Grobglas) – i cui legami interni lumeggiano una trasversale conflittualità per ragioni sessuali, sempre più definita col procedere della vicenda; infine due sbirri, Danny (Lior Ashkenazi) e Yuval (Danny Geva), difformi nell’aspetto e nel comportamento, eppure accomunati da una sostanziale incapacità di ottemperare ai dettami del proprio ruolo istituzionale.

Il film sembra configurare una situazione tipica dello slasher, con un luogo selvaggio e lontano dalla comunità umana, un assassino spietato e un gruppo di personaggi a fungere da vittime designate, ma l’intelligenza dello script, su cui si basa gran parte della riuscita del film, condurrà le vicende narrate a prendere strade poco praticate dal genere di riferimento, e non tanto nella messa in scena, ricca di soluzioni visive estreme e gory, quanto nello sviluppo del racconto, che diverrà una sorta di teatro dell’assurdo en plein air. Ognuno dei personaggi coinvolti nasconde un segreto – in taluni casi evidenziato, in altri celato, in altri ancora svelato progressivamente dal focus della narrazione – e basa su di esso le proprie decisioni, le quali, anziché presentarsi come efficaci risposte agli stimoli ambientali e alle necessità dettate dalle circostanze, si manifesteranno come tragici errori, scelte grottesche, inadeguate e pressoché sempre ispirate dall’interesse personale, dalle proprie debolezze, o tutt’al più e nel migliore dei casi, dai propri limiti. Tema portante di Rabies è appunto l’incomunicabilità esistenziale/spirituale, che si concretizza non di rado nella sua controparte fattuale e tecnologica. Il frequente e vano ricorso a mezzi di comunicazione a distanza (cellulari, ricetrasmittenti), i cui utilizzatori non riescono pressoché mai a raggiungere l’interlocutore desiderato, o se vi riescono, lo fanno quando è troppo tardi, è sintomo emblematico del tracollo di ogni rapporto umano.

Tuttavia, non sono solo l’egoismo e il predominio delle pulsioni a costituire il tallone d’Achille delle figure coinvolte, giacché una congrua parte della loro umana sconfitta risiede nell’inadeguatezza a decifrare i segni comportamentali e psicologici dei propri interlocutori, così come nell’incapacità di saper comprendere quelli di pericolo delineati dall’ambiente circostante: incolmabili lacune cognitive, che si aggiungono alla sostanziale sociopatia di ognuno e che conducono al fallimento di ogni tentativo di azione risolutiva. Ogni personaggio è infatti una sorta di monade incomunicante con l’esterno e risulta interessato esclusivamente alle proprie necessità personali, sordo e cieco alle altrui istanze o alle sfide poste dal territorio: di qui la serie di azioni assurde e apparentemente immotivate che ciascuno di essi si trova a compiere, ebbro di sé; azioni che presentano a più riprese i tratti dell’inutilità/gratuità, o peggio della dannosità, e che sovente esprimono l’ottusità della furia, della rabbia frustrata (e naturalmente contagiosa) di chi, infantilmente o bestialmente, reagisce al confronto con l’altro ponendosi come soggetto assoluto. Nessuno dei protagonisti (fra le indubbie qualità del lavoro di Keshales e Papushado vi è anche quella di non lasciare sullo sfondo nessuno dei personaggi, ciascuno dei quali è appunto, a suo modo, protagonista) riuscirà a raggiungere i propri obiettivi e quasi tutti troveranno il compimento del proprio destino in una morte assurda, nemesi perfetta del loro agire. Caino colpirà Caino e perirà per mano di Caino, mentre il Fato, o magari il Caso, o forse un Dio burlone, da qualche parte se la riderà di gusto nel vedere tali rappresentanti dell’umanità alle prese con le proprie miserabili aspirazioni. Non vi sarà nemmeno bisogno dell’intervento del consueto e imprendibile assassino affinché ciò avvenga, dato che quest’ultimo per buona parte della vicenda si troverà in un angolo della selva, tramortito e impotente, sorta di Godot beckettiano: un gustoso sberleffo allo spettatore, perlomeno a quello adagiato sugli ormai consunti stereotipi dello slasher tradizionale.

Keshales e Papushado possono fregiarsi del titolo di primi registi nella storia del cinema israeliano ad essersi cimentati con l’horror, mettendo in atto una rilettura dello slasher anni ’70, ma anche di quello contemporaneo, che ne stravolge i cliché dall’interno, attraverso un’architettura narrativa articolata, non di rado macabramente beffarda, nonché sagace nel mostrare la banalità del male e i suoi effetti grotteschi sulle azioni umane: talora ridicole, più spesso tragiche, probabilmente mai serie.

Autore: Gian Giacomo Petrone
Pubblicato il 07/12/2017

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