Big Bad Wolves, opera seconda dei registi israeliani Aharon Keshales e Navot Pupushado, giunge dopo l’ottimo esordio di tre anni orsono con Rabies (Kalevet), considerato il primo horror proveniente da Israele. Rabies era tagliente, girato in modo egregio, uno di quei film che è difficile togliersi di dosso dopo averli visti: non si può dire altrettanto di questo Big Bad Wolves, entusiasticamente definito da Quentin Tarantino “il miglior film dell’anno”. Dal punto di vista tecnico, Keshales e Pupushado si riconfermano registi di rara abilità, nella costruzione delle immagini e nell’uso espressivo di carrelli e dolly, sempre pienamente funzionale alla narrazione. La bellissima sequenza iniziale, un gioco al nascondino al rallenty, immerge nell’atmosfera da realistica e crudele favola nera a cui si rifà il titolo, con quei grossi e minacciosi lupi cattivi solo apparentemente immaginari.
Un mite insegnate di religione è il principale sospettato del rapimento e dell’omicidio di una bambina: interrogato dalla polizia a suon di percosse, viene rilasciato. Un detective, Miki (ottimo Lior Ashkenazi), è assai poco convinto della sua innocenza: continua dunque le indagini per conto proprio, fino a venire trascinato nella folle vendetta del padre della piccola vittima. Big Bad Wolves parte bene, è un noir atipico, che riesce a conservare una sua identità culturale, per quanto certe influenze hollywoodiane (il già citato Tarantino in primis) non possano essere trascurate; il valore è nei dettagli, nelle inquadrature attente, nel non soffermarsi sul cruento, mostrando un pudore al quale certo cinema non ci ha più abituati. I registi utilizzano l’horror e il thriller per lanciare stilettate sociali e politiche, restituendo al genere il suo carattere puramente sovversivo: la polizia ne esce malconcia, così come i pregiudizi sugli arabi, ma è l’uomo in quanto tale che fa una pessima figura. Il padre della bambina che diventa torturatore, al quale si aggiunge il nonno, in un girotondo di follia che è un attacco al giustizialismo spiccio, al forcaiolismo che abbruttisce e spesso acceca (si pensi alle frequenti notizie di linciaggi). Il crimine, soprattutto se colpisce in modo diretto, negli affetti più profondi, è alibi perfetto per far uscire il mostro, la bestia, e il personaggio del padre ne è simbolo tanto esasperato ed eccessivo quanto calzante.
Premesse che potevano portare lontano, a un film teso e sferzante, ma si opta per un registro comico-grottesco che finisce per risultare poco convincente: il coté comedy non smorza ma appesantisce, si mette in gioco una posta assai alta, nel cercare di restare in equilibrio tra modalità narrative antitetiche e purtroppo l’impresa non riesce, poiché la corda finisce per spezzarsi. Il connubio violenza/ironia è tra i più difficoltosi e sono pochi i registi che sanno tenerne saldo il timone: il segreto sta, come sempre, nelle dosi, nel mescolare alla perfezione i due ingredienti (basti pensare a film come Le iene o Ichi the Killer, ingranaggi pressochè impeccabili in quel senso). Il colpo di scena shock, estremamente azzeccato, e l’ottimo finale, non sono sufficienti a riscattare un insieme che lascia perplessi. Tuttavia, il film ha riscosso anche ottime critiche, il che ne sottolinea la natura sostanzialmente soggettiva e manichea: è pellicola che prende una posizione, non restando anonima, dunque anche le reazioni tendono a essere opposte. I Big Bad Wolves del titolo, i grandi lupi cattivi , non sono solo i pedofili: sono, in un certo senso, tutti i personaggi adulti del film, dal padre e figlio torturatori fino al detective che commette forse l’errore più grande: quello di non essere stato in grado di proteggere.