Requiem
Opera autenticamente laica, non laicista, sulle aberrazioni della religione e l’inadeguatezza della scienza; uno sguardo lucido e pessimista sui limiti della condizione umana
Il demoniaco – così come, inevitabilmente, il divino – si costituisce come irruzione dello straordinario nel placido e ripetitivo equilibrio del quotidiano, dell’invisibile nella rassicurante dimensione del visibile, del sovrannaturale nell’ordine naturale delle cose. In un contesto dominato dalla dimensione religiosa, non solo il piano terreno e quello ultraterreno si toccano, ma giungono a mischiarsi fino a confondersi: il quotidiano esonda nel fantastico, l’invisibile diventa percepibile ai sensi come apparizione sovrumana, la realtà si tinge dei colori sfumati e incerti del prodigio. Il divino e il diabolico si contendono così la totalità del cosmo, l’immanente come il trascendente e, non da ultimo, l’uomo e il suo favore. L’epoca moderna e il pensiero scientifico sono sembrate in grado di porre fine alla sovrapposizione dei piani, relegando progressivamente quello extramondano sullo sfondo. Mai del tutto, però. Non essendo la scienza né il pensiero razionale in grado di spiegare la totalità dei fenomeni, di inserirli in un contesto di senso nella loro interezza, di individuarne il ruolo e la portata attraverso il nesso di causa-effetto o l’analisi e la comprensione globale della realtà, rimane un’ampia zona grigia e crepuscolare, nella quale l’irrazionale torna a esercitare la propria egemonia. È a partire da tale zona di confine, poi digradando progressivamente verso il regno oscuro della leggenda e del mito, che la dimensione ultraterrena può ancora esercitare il proprio potere e che riemergono le paure originarie e invincibili del genere umano, cioè quelle della morte e dell’ignoto.
Se il cinema horror – dagli esempi più fulgidi a quelli meno riusciti – nasce, si sviluppa, persevera e si rigenera continuamente con la funzione di sondare e, almeno in parte, di esorcizzare proprio i fantasmi dell’irrazionale, è anche vero che vi sono molteplici opere filmiche capaci di immergersi nelle fobie e nelle angosce più profonde che assillano l’uomo, senza ricorrere agli stilemi propri del genere, bensì allontanandosene decisamente, e tuttavia riuscendo a mettere in scena l’orrore nella sua dimensione quotidiana e ordinaria, forse la più terribile.
Requiem, del regista tedesco Hans Christian Schmid, lavora proprio in tale direzione, evitando tutte le trappole e le pur magnifiche sovrastrutture del cinema fantastico di paura, per raccontare una vicenda tragicamente umana e ispirata a fatti realmente accaduti in Germania, verso la metà degli anni ’70 del secolo scorso. Il nodo del dubbio relativo al conflitto fra fede e ragione, con le loro rispettive e dissonanti verità, non viene sciolto, o meglio, viene accentuato da un persistente scetticismo sia nei confronti dell’una che dell’altra. Naturalmente, è anche vero che questa intenzionale equidistanza del giudizio, pur togliendo linfa agli aspetti spettacolari e sovrannaturali (inaridendoli fatalmente del tutto e distanziando Requiem in modo netto da pressoché tutte le altre pellicole a sfondo demonologico, in particolare da un altro titolo più o meno coevo, The Exorcism of Emily Rose, di Scott Derrickson, anch’esso ispirato alla medesima vicenda) si mostra in grado di seguire con esiti ragguardevoli la via più ardua del dramma umano, della deriva esistenziale di una giovane donna combattuta fra le ombre della fede e l’impotenza della medicina.
La vicenda narrata nel film di Schmid prende le mosse, come si accennava, da una storia effettivamente accaduta, terribile e lontana nel tempo (non poi così tanto lontana, peraltro), che vede protagonista Anneliese Michel, una giovane donna bavarese di famiglia rigidamente cattolica, presumibilmente affetta da epilessia, che fra il settembre del 1975 e il giugno del 1976, ritenuta posseduta dal demonio, venne sottoposta a molteplici e vani esorcismi, fino alla sua morte, avvenuta il 1° luglio del 1976 per disidratazione e malnutrizione (al momento del decesso la donna pesava appena 30 kg), senza più alcun ricorso alla medicina ufficiale, peraltro rivelatasi incapace di curarla. Schmid trae spunto da tale avvenimento per costruire un film tanto lineare nella narrazione (oltre a una notevole aderenza ai fatti reali che fungono da ispirazione) quanto complesso negli assunti tematici. L’immane tragedia vissuta da Michaela Klinger (la bravissima Sandra Hüller) – questo il nome scelto da Schmid per il suo personaggio – diviene il simbolo e la parabola esemplare dei limiti dell’uomo di fronte ai dubbi e alle paure che lo assillano. In questo, Requiem si dimostra pellicola potentemente laica, nel senso esteso e pieno del termine, in quanto capace di prendere le distanze sia dalle sospese e parziali certezze della medicina, sia da quelle dogmatiche e opache della fede. Vi sono casi in cui il dolore non può essere alleviato, in cui nessun farmaco è in grado di lenirlo e in cui, allo stesso modo, nessuna speranza o salvezza proveniente dal mondo ultraterreno sarà in grado di strappare l’uomo dalla sua misera condizione di essere fragile e mortale. È proprio qui che si situa la laicità del film, vale a dire nella sua capacità di emanciparsi dai lacci e lacciuoli ideologici della partigianeria fideistica o scientistica, esprimendo la libertà etica di non schierarsi moralmente (a favore quindi di un Sommo Bene terreno, la scienza, o ultraterreno, il divino) o, ancor peggio, moralisticamente, ed evitando quindi l’individuazione di un orizzonte valoriale che appoggi incondizionatamente l’una o l’altra soluzione. Anche perché non c’è, e non può esserci in questo caso, alcuna soluzione.
Sia la fede che la scienza assumono, in questo contesto, i contorni aleatori della superstizione, cioè di una credenza cieca e ottusa in un insieme di dettami, regole e precetti distanti dalla realtà e incapaci di migliorarla. I sintomi di disagio, frustrazione e dolore che Michaela accusa possono attenere certamente all’ambito clinico, impotente però a fornire diagnosi risolutive e medicamenti efficaci; allo stesso modo, tali segni di disequilibrio psico-fisico, proprio in quanto inspiegabili per la scienza, potrebbero riguardare la sfera extramondana, legata alla dimensione dell’irrazionale, ma, anche se fosse così, le forze incaricate di sconfiggere il Male – nella fattispecie i due sacerdoti incaricati dell’esorcismo – risultano comunque inutili, probabilmente dannose.
Requiem fonda la propria forza nella capacità di mostrare, anziché dimostrare, approcciandosi al tessuto narrativo e al tratteggio dei personaggi senza incauti psicologismi o posizionamenti ideologici, bensì ricavando frammenti di senso dai comportamenti, dai gesti, dalle parole – pesano sempre parecchio le parole, i dialoghi, in ogni sequenza, in ogni momento del film – e dagli sguardi: un approccio entomologico e semi-documentaristico, che restituisce una serie di dilanianti drammi interiori, che rimangono celati (avvolti dal mistero del corpo e della persona), inespressi nelle loro cause più profonde, evocandone solo gli esiti nella loro reazione col contesto circostante. Ogni personaggio è delineato in modo semplice, anche se quasi mai schematico, con un’estrema attenzione alla sua umanità, alle sue debolezze, meschinità, slanci affettivi, contraddizioni, e sempre conservando la propria coerenza individuale. È la protagonista Michaela a ricevere, però, com’è naturale, tutta l’attenzione e le premure del regista, che ne tratteggia un ritratto empatico e sofferto, pur divenendo ella scostante e repulsiva, a tratti, nei momenti più intensi e drammatici. Emerge un personaggio umano, troppo umano, diviso fra l’urgenza della giovinezza e della scoperta di un mondo ancora sconosciuto, ma carico di promesse, e il peso di una condizione famigliare e personale troppo greve per tanta leggerezza e fragilità; un personaggio confuso e dalla personalità frammentata, a causa delle illusorie e opache “verità” di due saperi arroganti quanto limitati, due Moloch ingombranti e, a volte, assai pericolosi, incudine e martello per la vittima designata. Michaela è dilaniata da perenni dubbi riguardanti la propria condizione sia di membro della grande e chiusa famiglia della Chiesa sia in quanto parte della specie umana, con tutti i bisogni, le curiosità, i sogni e i timori che questo comporta. Ingabbiata da una famiglia rigida e tenacemente arroccata sulle posizioni più dogmatiche e intransigenti della religiosità, sviata dai due sacerdoti che si occupano del suo caso e che risultano in persistente contraddizione fra loro, perennemente turbata e irritata dai medici e dalle cure, che non le recano alcun giovamento e, infine, attratta dalle lusinghe della gioventù, incarnate dal neo-fidanzato Stefan (Nicholas Reinke) e dall’amica Hannah (Anna Blomeier), che pure non comprendono appieno la sua pena, Michaela non tarderà a chiudersi caparbiamente in se stessa, in compagnia unicamente dei propri fantasmi interiori o, chissà, di qualche entità sovrannaturale, che approfitta della sua debole condizione. Qualunque sia l’effettivo problema di Michaela (problema che resterà celato nella sua effettiva natura e prospettiva per tutto il film), la sua predisposizione al male, o al Male, deriva da una sostanziale mancanza di certezze, da un orizzonte esistenziale contorto e contraddittorio e, in definitiva, dall’impossibilità, per un essere delicato, confuso e fuorviato da modelli di riferimento in conflitto fra loro, di affrontare autonomamente, in piena libertà e consapevolezza, la crudele e magnifica avventura della vita.
Requiem riesce, in un colpo solo, a demolire le granitiche convinzioni delle due grandi narrazioni che scandiscono la storia dell’umanità, di quei due approcci al reale autoincoronatisi come risolutivi ed esclusivi (anche nel senso che l’uno escluderebbe, in buona sostanza, l’altro) per rivelare, con sguardo affettuoso ma fermo e intensamente venato di pietas, il dramma dell’umano nella sua dimensione più profondamente tragica, in quanto impossibilitato a fronteggiare vittoriosamente le proprie paure, sia a causa della natura stessa della propria condizione, sia a causa delle molte sovrastrutture imposte dalla comunità famigliare o sociale, sia infine perché – ed è questo il senso più profondo del tragico – nessuno può sfuggire ai propri demoni, chiunque o qualsiasi cosa essi siano.