Halloween - La resurrezione
La seconda incursione di Rick Rosenthal nella saga di "Halloween" tenta di rivitalizzare il mito di Michael Myers all’imbocco del nuovo millennio, ma l'esito è un film col fiato corto e invecchiato precocemente.
Con l’affacciarsi del nuovo millennio, la saga di Michael Myers continua a non conoscere ostacoli e nel 2002 vede la luce Halloween – La resurrezione, settimo tassello dell’intero complesso e quarto di quella sorta di sotto-filone narrativo costituito dai primi due episodi e da Halloween H20 – 20 anni dopo, escludendo ovviamente dal computo globale Halloween III – Il signore della notte, totalmente avulso sul versante della continuità del racconto, soprattutto in quanto privo di riferimenti alla figura di Myers.
Rick Rosenthal torna ad occuparsi di “The Shape” dopo aver già diretto l’interessante secondo capitolo più di vent’anni prima, e assieme ai suoi sodali, gli sceneggiatori Larry Brand e Sean Hood, tenta di rivitalizzare le gesta dell’immortale killer strizzando l’occhio alle nuove tecnologie (Internet) e agli emergenti format multimediali (Grande Fratello), con l’incombere ulteriore dell’influenza del fondamentale The Blair Witch Project, uscito appena tre anni prima. Le vittime designate, sei ragazzi e un giovane operatore, dovranno stavolta immergersi nell’avita magione dei Myers alla ricerca di indizi sull’invulnerabile assassino, venendo dotati di micro-videocamere personali, mentre altri dispositivi visuali, opportunamente installati in punti strategici dell’abitazione, seguiranno gli eventi in modalità “nobody’s shot”. Il tutto potrà essere seguito in diretta sul Web, intanto che, simultaneamente, dietro le quinte agiranno i due ideatori del programma (Busta Rhymes e Tyra Banks), che escogiteranno vari stratagemmi per spettacolarizzare l’evolversi degli eventi.
L’idea di un reality show mortale, con protagonista indiscusso il babau creato da John Carpenter e Debra Hill, non sarebbe stata in fondo così peregrina e nondimeno il lavoro di Rosenthal, tutt’altro che disprezzabile dal punto di vista strettamente tecnico e visuale, stenta a trovare la giusta calibratura narrativa, disperde tutto il potenziale di elaborazione linguistica e meta-testuale, finendo col risultare senz’anima e discontinuo. A eccezione di una prima parte promettente, che ripropone l’ennesimo e fratricida duello fra Laurie Strode (ancora una volta Jamie Lee Curtis, mai doma e sempre convincente) e The Shape all’interno di un ospedale psichiatrico, con una messa in scena sostanzialmente tradizionale ed efficace nella sua semplicità, il film tenta, con risultati perlopiù sconfortanti, la strada del crossover fra cinema, nuove tecnologie e linguaggi multimediali.
Ciò che avrebbe potuto configurarsi come motivo di articolazione tecnica, espressiva e, perché no, teorico-riflessiva finisce invece con l’appiattirsi su un approccio esclusivamente esteriore al nuovo, ripiegando poi banalmente sulla consueta mattanza di vittime malcapitate e ottusamente poco reattive, e riproponendo i più consunti cliché dello slasher senza alcuna capacità di trascenderli. L’esatto contrario di ciò che è stato in grado di fare Wes Craven con Nightmare – Nuovo incubo e con l’intera saga di Scream. Infatti, un conto è lavorare sul principio che fonda l’uso di una tecnologia e del linguaggio che le è connesso, un altro è fossilizzarsi sugli aspetti accidentali che accompagnano i fini e le modalità di tale uso, specie se confinati in un presente circoscritto e, pertanto, facilmente superabile da un progresso tecnico sempre più rapido e votato alla repentina obsolescenza dei dispositivi creati. Nel primo caso potranno emergere la dimensione universale e quella politico-filosofica del rapporto uomo-mondo mediato dalla tecnica, nel secondo affioreranno esclusivamente gli elementi residuali e sovrastrutturali di tale rapporto e di tale mediazione, in una cristallizzazione irredimibile sull’hic et nunc, prodromo inevitabile all’invecchiamento precoce di qualsivoglia discorso, filmico e non.
D’altro canto, se Halloween – La resurrezione risulta assai povero dal punto di vista meramente teorico, esso non riesce a raggiungere risultati soddisfacenti neppure sul versante più prettamente ludico: i personaggi sono perlopiù privi di spessore e quando rivelano delle sfaccettature vagamente più articolate – come nel caso dell’istrionico ideatore del programma, interpretato con efficace (auto)ironia dal rapper Busta Rhymes, che sembra però appena uscito da un film dei fratelli Wayans (i primi due Scary Movie vengono realizzati una manciata di mesi prima del film di Rosenthal) – tendono comunque alla macchietta, alla farsa, all’alleggerimento fuori luogo e fuori ritmo di un film che dovrebbe (anche) fare paura. Mike Myers, dal canto suo, è divenuto ormai la caricatura – si potrebbe dire l’ombra – di se stesso, quasi che la propria indistruttibilità ne facesse lo zimbello delle sue stesse vittime, che paiono irriderlo della sua ottusa meccanicità. L’insieme appare, in definitiva, goffamente concepito e amalgamato, sovente fuori asse e disarmonico, oltre che troppo oscillante fra il serio, il parodico e, talvolta, il ridicolo involontario. Ci vorrà un ripensamento della saga dalle fondamenta, come quello messo in atto da Rob Zombie, perché The Shape possa riappropriarsi, come merita, della forza originaria del Mito.