L’hardcore non è un genere
musicale: è un’attitudine.
Questi sono gli avvenimenti che raccontano di come un taccuino da viaggio è potuto diventare un libro di Storia. E di come un plettro si sia trasformato in biglietto aereo per girare mezzo mondo. Questa è la storia del puzzo della federa al mattino appena svegli, intrisa del sudore buttato fuori la notte prima mentre si era intenti a fare stage diving. O di come un anonimo negozio di ottica romano sia divenuto il perno di un’intera cultura musicale e sociale. Questa è la storia dell’hardcore romano, nel periodo di fulgore che ha vissuto fra il 1989 e il 1999, decade di affermazione dopo una crescita costante avvenuta fra i ’70 e i primi ’80.
Giulio Squillacciotti narra le vicende di una decade, intervistando nomi che vitalizzarono e resero grande “la scena” romana – forse la più importante d’Italia, in tal senso – e nel farlo ferma per un istante il magma umano che animò l’hardcore per consegnarlo ai posteri, per analizzarlo e renderlo eterno. L’hardcore, lo si diceva nell’esergo d’apertura, non è un genere musicale, bensì un’attitudine. Ogni genere musicale può essere hardcore, tutto sta in quanta energia ci si mette, in quanta “caciara” si è disposti ad alzare, in quanto sudore si è disposti a versare. La scena muove i suoi primi passi sul finire degli anni ’70 con dei veri e propri misfits (“disadattati”): gente con la banana in testa, col chiodo, vestiti con abiti più grandi di tre taglie comprati a Porta Portese o da Mas. Con gli skateboard e con gli Lp di artisti sconosciuti o improponibili, con marcato nichilismo e una discreta sociopatia. I centri sociali occupati, come pure spazi genericamente adeguati e attenti alla realtà musicale documentata, non erano presenti sul territorio come oggi, e suonare alle feste di liceo come pure improvvisare un concerto in mezzo al nulla era scelta obbligata, necessaria per rispondere all’urgenza musicale e comunicativa che sta alla base dell’hardcore stesso.
Erano gli anni del metal, del rap e del punk, e in questo senso l’hardcore oltre ad aver formato generazioni di liceali in modi mai visti sin lì, ha anche creato un nuovo modello di fare e pensare la musica. Il do it yourself: l’autoprodursi, il pagarsi le trasferte fuori Roma, la sottoscrizione per prendere parte ai concerti, ma soprattutto suonare in un gruppo senza avere neppure le basi musicali buone per un giro di do. Sapere quattro accordi e aver voglia di suonare: questi erano i soli requisiti per tirar su una propria band. Con la strafottenza e il disincanto tipicamente romani, nuovi adolescenti hanno preso, copiato e poi tradotto in chiave italiana gli esempi provenienti da mezzo mondo – soprattutto Inghilterra e USA – per farne una cultura nostrana. Oggi l’hardcore ha uno statuto schiettamente italiano affrancato da debiti culturali esteri che continua a conquistare proseliti.
Ma RMHC – Hardcore a Roma 1989-1999 appare come il bel documentario che è soprattutto perché nel suo onorare gli uomini e le donne che agitarono e fecero maturare la decade musicale indagata, riesce al contempo a restituire la cifra più intima dell’operazione che sottende il tutto. Che è una cifra soprattutto politica, ideologica: l’hardcore è stato uno fra gli ultimi sussulti dello scorso secolo dove un’intera generazione si è spontaneamente aggregata ad una maniera di intendere la vita, mettendo da parte divisioni culturali, sociali e di ceto per creare qualcosa di veramente condiviso. La proletarizzazione della musica, la possibilità di essere parte attiva della performance musicale sia come ascoltatore che come musicista, la scomparsa del palco come luogo dispotico dal quale far piovere suoni verso un uditorio sottomesso, la partecipazione totale in ogni aspetto delle questioni musicali per chiunque volesse, un’emancipazione umana in virtù della condivisione, del dialogo e del contagio dialettico: tutti aspetti che hanno inciso in un primo momento sulla sola “scena” ma che nel giro di qualche anno – oggi ciò è ampiamente ratificato – ha investito la cultura nazionale tout court, nessuno escluso.
Il chiodo, Autonomia Operaia, i punk, i gruppi elettrogeni, le fanzine, il pionierismo: Giulio Squillacciotti nel raccontare una piccola vicenda oramai riconosciuta si accorge di avere a che fare invece con l’epica, con il mito. Perfettamente a suo agio riesce quindi ad armonizzare il tutto, stando attento tanto alle grandi questioni quanto ai piccoli aneddoti che hanno caratterizzato le vicende, sicuro com’è che la mitologia si fonda tanto sul generale quanto sul particolare. Riuscire a tener insieme nella stessa matassa fili tanto diversi, tanto insubordinati, anarchici e talvolta impalpabili non è affare da poco, per un risultato ottenuto che è di doppio valore in ragione delle difficoltà congenite al racconto – e al raccordo – di simili humus culturali.
Un documentario da reperire con la massima tenacia, con il massimo impegno: ne vale davvero la pena.