Sagre Balere – Dance Hall Land
Omar Codazzi, icona delle balere, ritratto da Alessandro Stevanon
Omar Codazzi, classe 1972, è un cantante forse non noto a tutti ma amatissimo dagli appassionati di un genere – il liscio – che pur essendo oggi circoscritto a certi contesti (primi fra tutti le “sagre” e le “balere” del titolo) vanta ancora un pubblico ampio, devoto e incredibilmente affezionato. Lo racconta il bel documentario di Alessandro Stevanon, assieme un omaggio e un ritratto e, in un certo senso, un ulteriore palcoscenico/spazio performativo offerto a un personaggio sui generis che si fa interprete di un certo modo di essere e sentire – condiviso appieno dai suoi devoti fan - che fa appello a un’emotività diretta, semplice, a tutto tondo, specchio di un’Italia quasi dimenticata, forse liminale, sospesa nel tempo.
Sagre Balere è il diario di un tour musicale ma anche la descrizione di un mondo che persiste nel corso del tempo quasi immutato e uguale a se stesso; è un luogo che si fa intimo quando Omar e la moglie Adele vivono, davanti alla macchina da presa, la loro quotidianità; è un collage di esibizioni e canzoni, ma anche di ricordi - sempre quelli di Omar - che fuori dal condominio in cui è cresciuto ci mostra il balcone dove da ragazzino si affacciava e cantava, la discesa dove sfrecciava con il motorino, l’angolo buio dove ha dato i suoi primi baci. Poche sequenze rubate a vecchi filmini casalinghi raccontano la sua vita familiare: i genitori, inizialmente dubbiosi di fronte alla sua scelta di lasciare un lavoro sicuro – il carrozziere – per una “stupidata”, cioè il sogno di fare il cantante; e la figlia che, afferma il protagonista, è cresciuta con la sensazione che il padre appartenesse al pubblico prima ancora che a lei. Pubblico con cui, del resto, il cantante ha un rapporto speciale: annullate le distanze che separano, come da copione, il divo dalla folla, Omar si profonde ogni volta in baci e abbracci autentici e spontanei, perché quella in cui si muove è, per molteplici ragioni, una dimensione quasi familiare, che si nutre della grande passione condivisa per la musica e il ballo.
Sebbene Stevanon scelga di far aderire completamente il suo sguardo al protagonista, costantemente osservato sul palco e dietro le quinte, Sagre Balere finisce ben presto per oltrepassare la dimensione privata e singolare del personaggio, arrivando a fotografare attraverso una prospettiva ampia e onnicomprensiva l’interezza di un contesto, di un mondo nel quale in un certo senso confluiscono le visioni – più dettagliate, più estatiche – del Piavoli di Domenica sera (1962) e Festa (2016). Qui il regista di Pozzolegno riversava ed esplicitava da un lato la sua fascinazione per la danza come momento di espressività libera e non mediata, e dall’altro la sua predilezione per un cinema volto a carpire e collezionare dettagli, un cinema fenomenologico e “entomologico”. L’approccio di Stevanon è, va detto, di segno diverso: meno rarefatto, meno incline al lirismo, più prosaico e asciutto, essenzialmente interessato a restituire con esattezza – oltre allo spirito vivido del protagonista Omar - l’atmosfera peculiare dei luoghi, come rivelano la sequenza iniziale, con le centinaia di sedie vuote in attesa del pubblico, e quella finale, con le sfolgoranti luci al neon del famoso Studio Zeta ormai deserto e destinato a diventare un supermercato. Ma al di là delle differenze di stile siamo di fronte, in effetti, alla descrizione della medesima realtà: genuina, schietta, a tratti malinconica, “folcloristica” ma non per questo banale, anzi spesso – al contrario – ricchissima di umanità e sentimento.