Luis vaga nel bosco della sua vita come un pallone. Dice che è un artista, un saltimbanco, anche se non è vero. Si aggira nel deserto della sua esistenza incontrando una serie di personaggi che sembrano lo specchio dei suoi pensieri, incomprensibili, confusionari, messi lì come un necessario passo per capire qualcosa in più di sé stesso e del suo ruolo nel mondo. Il suo viaggio ad un certo punto sembra interrompersi, quando incontra una donna di cui si innamora alla follia. Insieme sembra si riconoscano, si trovino, calzini spaiati usciti dalla centrifuga del loro vivere ai margini, del loro peregrinare in cerca di una vita fuori dal coro. In mezzo tanti oboli, maghi di vite lontane, poetesse di parole dimenticate, echi di rumori (s)conosciuti. Alla fine un bambino, in ritirata dalla vita anche lui, assiepato dietro un albero, che scruta con fare furbetto i due che vagano nel bosco. Si unirà alla coppia, credendo che forse, insieme a quest’atipica famiglia che la sorte ha formato, possa in qualche modo farcela a camminare per il mondo con un sufficiente equilibrio.
Detto così potrebbe sembrare l’ennesimo sermone su come la famiglia sia diventato l’ultimo scafandro a riparo di un’esistenza che definire precaria, per alcune categorie, è minimizzare. Invece no, e loro, Luis e le altre due anime salve, siamo noi, sembra dirci Massimo D’Orzi, qui, con Sàmara, al suo esordio al lungometraggio con un lavoro in bilico tra sanità e follia, in cui ci si ritrova colpiti con veemenza dalle botte della vita, sognando, errando, fiutando, arrancando. Il fine è nobile ma il mezzo troppo scollato da una fruizione che ha l’intento di colpire lo spettatore, perso com’è in un tessuto onirico che purtroppo sfarina e sgrana il tutto, fino a renderlo troppo irreale, seppur con un mosaico di immagini pregne di umanità e candore. Tolto un Marco Baliani in stato di grazia e un protagonista, Filippo Troiano, altrettanto nella parte, il resto scivola via senza creare(crearsi) degli appigli su cui riconoscersi e ritrovarsi.