La frontiera
Chi è Alessandro Leogrande? Un progetto multimediale ci racconta la parabola umana e professionale di uno degli ultimi intellettuali organici contemporanei
Alessandro Leogrande è stato uno scrittore e giornalista italiano. Così esordisce Wikipedia. Dopo un excursus sulla sua carriera tra carta stampa e radio, richiama una citazione sul suo lavoro “in difesa degli ultimi e degli sfruttati nei più diversi contesti” e conclude riportando che nel 2018, ad un anno dalla sua prematura scomparsa, in Albania, a Tirana, una strada è stata intitolata a suo nome (... potremmo aggiungere che invece in Italia con buona probabilità il suo nome resta sconosciuto ai più!). Diremo piuttosto che Alessandro Leogrande è stato uno dei grandi intellettuali contemporanei nella tradizione meridionalista del 900’ (erede di nomi altisonanti quali Fortunato, Salvemini, Gramsci, Di Vittorio) che con respiro internazionale ha indagato e districato il Sud, mai slegato dal resto d’Italia. Ecco perché merita di essere divulgata e approfondita la mostra multimediale e itinerante La frontiera, sui luoghi di Alessandro Leogrande, finanziata dalla Regione Puglia - Coordinamento Politiche Internazionali e promossa tra i maggiori attori da Cooperativa Ulixes, da Cooperativa Quarantadue e Centro Documentazione e Ricerca Moebius.
La mostra ospita una serie di opere audiovisive che, ispirate agli scritti e alle inchieste condotte dallo scrittore tarantino, ne rivelano il profilo di intellettuale organico, studioso concreto votato all’esame di casi individuali per potervi astrarre una ben più grande realtà g-locale, urgente e incompresa. L’installazione, racchiusa idealmente sotto il nome La frontiera e composta da tre capitoli autonomi, diretti dal regista pugliese Savino Carbone, ripercorre visualmente i temi fondamentali fronteggiati da Leogrande: il caporalato nella Capitanata, l’esodo migratorio dai Balcani e la complessità della città di Taranto, avvalendosi del poderoso supporto di interviste a colleghi e collaboratori fraterni dello stesso, tra i quali Goffredo Fofi, Mario Desiati, Arlinda Dudaj, Yvan Sagnet, Ornella Bellucci, Nadia Terranova, nonché di contributi audio da Radio Radicale, Radio Tre Rai e Rai Teche.
La trilogia racconta dell’uomo e del giornalista partendo dai libri inchiesta Uomini e caporali e Il naufragio, da cui prende in prestito i titoli dei primi due capitoli, mentre il terzo ed ultimo è rinominato Dalle macerie ed è compendio dei suoi scritti su Taranto. Raccoglie e rielabora a piene mani questa letteratura sociale, in cui alla esattezza dell’alto giornalismo s’accompagna la profondità umanista (o meglio di re-umanizzazione) del romanziere, quale fu ad esempio Sciascia. Il regista adotta per ogni capitolo linguaggio e registro narrativo differente, così da dare a ciascuno un tono peculiare e rendere dinamica una visone già di per sé estremamente interessante.
Il contrappunto sonoro connota la prima parte. Uomini e caporali è difatti già tutto nell’introduzione che anticipa il titolo: i volti in primo piano di giovani africani sono accompagnati da una canzone popolare dialettale sul lavoro nei campi che spezza la schiena al “foggianello”, dove foggianello non è tanto appellativo geografico, quanto l’atavica configurazione di lavoro miserabile, il bracciante – animale da soma, abbandonato ad un destino di disperazione e violenza. Così, eccolo qui il foggianello dei tempi moderni, ha la pelle nera e viene da lontano. Viene anche lui a morire di lavoro?Solo il foggianello di un tempo può riconoscere la stessa sofferenza, qui dove la trasformazione socio-economica globalizzata si aggroviglia nella morsa omertosa della criminalità e con questa diventa sistema neo-schiavista. Anche i luoghi deserti sono usati volutamente come cassa di risonanza della componente sonora. Sulle panoramiche dei campi agricoli e sulle distese di barracopoli-ghetto, sino al cimitero di pietra bianca, aleggia in voice over il discorso di rivendicazione di chissà quale sindacalista. Nelle raffiche di un vento vizio sono intrappolate eco del passato e del presente, corsi e ricorsi sovrapposti, lontani per tempo e pure drammaticamente uguali per senso, come se un secolo intero non fosse mai trascorso. Pertanto, anche la voce dello stesso Leogrande risuona nei medesimi luoghi, accarezzando la terra nel ri-germogliare di consapevolezza viscerale. Tra il 2005 e il 2007, il tavoliere venne piegato dal fenomeno ordinario di sfruttamento per l’elevato numero di morti al bordo dei campi e nello stesso tempo grazie a Leogrande si ebbero le prime testimonianze sulle forme di sindacalizzazione dei migranti, nonché le stesure delle prime bozze sulla legge contro il caporalato.
Il montaggio quasi serrato di materiale televisivo d’epoca, soprattutto di tv locali, domina invece Il naufragio, che ci catapulta di nuovo di fronte al famigerato sbarco della nave Vlora nel porto di Bari nel 1991 e agli altri che seguirono ravvicinati. Una memoria già così rimaneggiata da essere diventata iconica per l’immaginario collettivo (imprescindibile per esempio è il gesto di vittoria delle dita di milioni di albanesi). Anche questo capitolo verte sulle dinamiche di forza lavoro svolte dall’immigrazione in Puglia, che sia porto di partenza o d’arrivo, ma in particolare va rivelando come Leogrande al quel tempo avesse già intrapreso con lungimiranza un particolare osservatorio sull’Albania – risorsa occupazionale, non considerando quella moltitudine di volti e voci che venne d’improvviso accalcandosi sulle nostre coste esclusivamente come mitico, ingestibile “sovraccarico umano”. Tuttavia, in quello scenario di affollamento di corpi “vittoriosi”, Leogrande rilevava al di là dei megafoni mediatici (virati come sempre accade in Italia al fronte elettorale) la tragedia che ai giorni nostri è purtroppo una norma, una assuefazione alla cronaca, ovvero i naufragi e le morti di quanti invece non raggiungevano l’Italia. Anticipava le inchieste sulle omissioni di soccorso e su quei camuffamenti, che in alcuni casi celavano veri e propri tentativi di respingimento, persino d’affondamento dei barconi ad opera dei presidi della marina italiana in acque internazionali. Per almeno un caso, quello del 1997 che coinvolse la motovedetta albanese Kater i Rades, fece seguito un lunghissimo processo, che avrebbe certo dovuto trovar luogo in sedi di giustizia internazionale e invece si svolse nei tribunali di Brindisi e Lecce, a conferma del reato di naufragio colposo. Le testimonianze a corredo del capitolo, riportano come Leogrande seguì l’istruttoria intrecciando la consueta correttezza professionale su fonti dirette (trascrizioni radio e dispacci) con profonda moralità, e non di rado intessendo amicizia con gli uomini sopravvissuti che incontrava. Per l’Italia è un episodio secondario, ma per il popolo albanese è la consapevolezza di un evento cruciale della propria Storia contemporanea, e che gli sia stata raccontata con dovizia e sensibilità dall’onestà d’animo di un Italiano resta forse l’unico e più grande risarcimento che il nostro paese ha saputo restituire.
Ed infine Taranto, città natale di Leogrande. Contesto di sperimentazione industriale, viene passata in rassegna partendo dal caso mediatico del politicante Giancarlo Cito e dal suo uso spregiudicato delle emittenti televisive e pre-social, predecessore ante litteram dell’avanzata della destra populista in Italia, come è venuto a configurarsi dal berlusconismo ad oggi. In questo epilogo il susseguirsi di interviste diventa sempre più fitto, un flusso unico di discorso, che intervallato da pochi inserti panoramici sulla città e i suoi alti fumi, quasi perde soluzione di continuità e diventa corpo unico, un corpo che si dichiara manchevole del suo portavoce più autentico. Sarà per questo che l’opera chiude simbolicamente sui i titoli di coda con la voce di un uomo anziano che rassegnato confida “il tarantino non lo parla più nessuno”. Fatto salvo questo nuovo cinema documentario militante.