Scappa - Get Out
L'esordiente Jordan Peele affronta di petto le perversioni del razzismo contemporaneo con un horror graffiante e incisivo
Mentre il cinema statunitense si apprestava a chiudere una lunga e prolifica stagione dove la questione razziale aveva trovato nel trionfo idealista e gratificante delle grandi produzioni terreno fertile per mettere in scena il rimosso di un’intera Nazione, l’estro comico ed irriverente di un attore scopertosi regista e la produzione illuminata della Blumhouse si accingevano a confezionare una critica tutt’altro che innocente ai mai sopiti pregiudizi della società contemporanea.
Scappa - Get Out, opera prima di Jordan Peele, è un piccolo, sorprendente horror indipendente e, insieme, tutto ciò che i suoi recenti predecessori (da The Birth of a Nation fino a Moonlight) non hanno saputo (o voluto) essere.
Di fronte a un panorama spesso e volentieri edulcorato e meramente catartico, troppo impegnato nella (ri)fondazione di un’epica e di una memoria storica per soffermarsi criticamente sul presente, Get Out, nella sua confezione di impeccabile film di genere, pare avere il coraggio e la giusta dose di scorrettezza politica per guardare con occhio cinico ed irriverente al suo tempo e alle contraddizioni tutt’altro che banali che lo abitano.
Basterebbe, d’altronde, la premessa (svelare di più sarebbe folle) dell’opera prodotta da Jason Blum per dare prova in un attimo di tutta la graffiante carica satirica di un film ben ancorato ai canoni del genere eppure capace di giocare con i toni e con i registri, senza per questo smarrirsi nella mera parodia di sé stesso.
É un mondo dove le contraddizioni non si sono mai realmente estinte, quello di Get Out, un mondo all’apparenza ripulito ma dietro le cui pieghe il razzismo si nasconde più subdolo, strisciante e pericoloso che mai.
Sarà davvero una buona idea per il giovane afroamericano Chris (in realtà il britannico Daniel Kaluuya, visto recentemente in Black Mirror) incontrare gli Armitage, (bianchissimi) genitori della sua fidanzata? Cosa nasconde quella famiglia perfetta ed esemplare, autoironica e che non perde un’occasione per professare la sua fede progressista e per tessere le lodi di Obama (o di qualunque nero gli capiti a tiro)?
Costato appena 5 milioni di dollari e incassatene più di 170 nei soli Stati Uniti, questo piccolo horror indipendente, popolato dalle facce giuste (dai volti noti di Catherine Keener fino ai caratteristi come Lil Rel Howery) e girato con una sicurezza insolita per un esordiente, trova una ragione del suo sorprendente successo soprattutto nel coraggio di affrontare di petto e con irriverenza un problema di cocente attualità e, insieme, nel sapersi dimostrare un meccanismo di genere impeccabile, dosando forme e registri in un mix letale.
Tra paranoie polanskiane e un’ironia esilarante, la commedia incontra l’orrore in questo brillante ibrido tra Indovina chi viene a cena? e La fabbrica delle mogli, mentre negli spazi ostili di un’apparentemente rassicurante quartiere residenziale va in scena la corsa claustrofobica e grottesca verso un orrore svelato pezzo dopo pezzo.
Get Out si trasforma così in un incubo razzista che mette alla berlina, nella sua satira perturbante, il pregiudizio pervasivo dello stereotipo, dell’ipocrisia e del politicamente corretto.
Un pregiudizio strisciante proprio perché fatto di luoghi comuni, proprio perché contaminato dal desiderio di prevaricazione, dalla volontà di sottomettere un soggetto invidiato, desiderato, inevitabilmente (anche grazie alle nuove narrazioni che lo raccontano) divenuto cool.
Ecco allora che, nel film di Peele, il corpo (nero) finisce col farsi l’oggetto di un desiderio perverso, il catalizzatore di un senso di inferiorità che lo vorrebbe alla sua mercé, gonfio com’è di quelle narrazioni e quei luoghi comuni che lo hanno raccontato e, infine, nutrito.