Nope
Jordan Peele smette i panni da intellettuale dell'horror per abbracciare IMAX e popcorn: e il suo cinema non è mai stato così originale, complesso e potente
È una maturazione impressionante quanto improvvisa, quella che Nope certifica oggi per il cinema di Jordan Peele.
Al suo miglior film, il regista newyorkese pare volersi finalmente disfare della sua corona da Genio dell'horror "intelligente", frettolosamente consegnatagli (con tanto di Oscar) a seguito di due lavori tanto ambiziosi quanto imperfetti. Get Out era in fondo poco più che un riuscito film-sketch, di evidente matrice televisiva, costruito come un simpatico episodio di Atlanta allungato quattro volte la durata prevista; il seguente US rivelava già una carica immaginifica importante, pur annacquata in un pasticcio di allegorie sociali vetero-romeriane (se Romero avesse maturato la propria visione del mondo leggendo Vox o Buzzfeed). Ciò che sembrava mancare in queste prime opere era proprio la millantata "profondità", come se lo stesso wonder kid non fosse del tutto convinto del ruolo messianico assegnatogli dalla critica mainstream. Peele presenta oggi il suo terzo film come un summer blockbuster, e a dargli retta sembra non aspettasse altro che abbracciare l'anima più rumorosa e popolare del cinema.
Una sconfitta (l'ennesima) per la vecchia compartimentazione tra film d'autore e film commerciali: Nope fa sicuramente parte della seconda categoria - ma è allo stesso tempo più complesso, e dunque più meritevole, di quanto non fossero i due precedenti lavori del regista.
Peele si vede oggi come nuovo Spielberg (o al massimo nuovo Carpenter, suo autore preferito), restauratore di un approccio serio e creativo all'intrattenimento di massa che pareva estintosi nel 1993 – quando tale produzione rappresentava ancora l'apoteosi della visionarietà cinematografica, anziché la sua tomba. Si riprende da dove ci si era interrotti, reclamando un proprio spazio nella continuità della tradizione pop: e così fanno anche i fratelli Haywood (Daniel Kaluuya e Keke Palmer), auto-proclamandosi discendenti del celebre fantino del Sallie Gardner at a Gallop di Muybridge, "prima action star del cinema". I due protagonisti allevano cavalli per i set, e sognano come ogni buon americano la "svolta" della notorietà hollywoodiana. In Nope, questa si palesa nella forma circolare di una misteriosa entità comparsa sopra il ranch - un bad miracle, dannazione e benedizione, ultima possibilità di (ri)entrare nel mondo dello show business dalla porta principale. Un sogno condiviso dai tanti grotteschi personaggi di contorno: il complottista Angel (Perea), l'ex bimbo-attore divenuto imprenditore Jupe Park (Yeun), il DOP superstar Holst (Wincott). Tutti alla ricerca del grande Spettacolo, pronti a gettarvisi dentro le fauci.
Solo poche settimane fa, Robert Eggers scoprì a sue spese la pericolosità della transizione al mainstream, andandosi a schiantare con il blando The Northman. La virata del collega Peele, dall'ormai saturo indie horror contemporaneo verso la sci-fi d'azione, avviene invece con naturalezza abbagliante – come se i precedenti lavori non fossero che un pegno da pagare in vista di questa reincarnazione formato IMAX.
In Nope rivive un'amore d'altri tempi per l'artigianato del blockbuster, espresso in una ricerca quasi scientifica del dettaglio memorabile: dagli effetti sonori usati come personaggi parlanti, al charachter design di un "mostro finale" tra i più originali e inquietanti visti di recente (viene da piangere pensando a come la Marvel, in quindici anni di dominio sul genere, non sia riuscita a crearne uno che si ricordi). E se i riferimenti sono tutto sommato i soliti (con i doverosi omaggi a Evangelion e soprattutto Akira, importante per le nuove generazioni quanto Godzilla lo fu per le precedenti), quasi non ci si accorge della scelta più radicale di tutte: la rinuncia agli anni '80, consegnati infine al passato in favore di una storia pienamente contemporanea.
Nope non nasconde il suo rapporto conflittuale con la storia dell'audiovisivo che lo precede. Si manifesti negli amati eighties della Amblin, o nei dementi nineties delle sitcom, la recrudescenza del passato è un marciume da fare a pezzi, divorare, e togliere finalmente di mezzo. È qui che torna, più forte che mai, il tema chiave della filmografia di Peele: restituire agli Haywood d'America lo status di cinematic royalty sempre sognato, forse inventato, infine conquistato in un personale gran finale di cavalli al galoppo. Riappropriarsi della tradizione cinematografica statunitense, ma nell'unica maniera che conti: non parlando al posto suo, non lanciandosi in didascaliche omelie su questo e quello (lo showbiz vorace, i dannati del sottosuolo, i liberali stronzi) - ma sovvertendo le implicazioni della sua iconografia mitica.