Red Rocket
L'antropologia della disgregazione sociale di Sean Baker veste l'abito della commedia: più accessibile nei contenuti, sempre intransigente nello stile.
Ha ancora senso porsi come "regista underground", sembra chiedersi Sean Baker tra le righe di Red Rocket? Sussistono ancora i presupposti per quella contrapposizione militante con le istituzioni dell'intrattenimento? Forse ai tempi del New American Cinema, nella sua formalizzazione newyorkese del '60-'61, quando lo studio system deteneva un controllo burocratico sugli strumenti fisici della produzione audiovisiva; ma in un'industria che porta Chloe Zhao all'Oscar? La mano lunga dell'establishment sa trovare un posto e un mercato a qualunque cinematografia. E ai premi, Sean Baker sta sicuramente pensando: già il coinvolgimento del divo Dafoe nel cast neorealista del bellissimo The Florida Project poteva spiegarsi giusto in tal senso. Red Rocket fa allora un passo ulteriore in quella direzione: più indie che underground, estremamente "scritto" (forse troppo), meno debitore delle prime improvisations di Cassavetes e più della commedia-Sundance di metà anni 2000 (in cui si inserisce il recupero dell'ex volto Mtv Simon Rex). È il film con cui il regista prova a farsi conoscere al grande pubblico: questione di poco, e la consacrazione arriverà.
Nella recente scuola dell'iperrealismo USA (vengono in mente almeno Benh Zeitlin, Tim Sutton, la stessa Zhao), Sean Baker mantiene però un purismo da missionario. L'autore del New Jersey non è un turista in prestito dagli studios, che gioca con i casi umani in attesa di una chiamata alla Disney: il suo approccio è un cinema di persone, in cui lo spazio per la manipolazione del reale è minimo. È figlio di Ombre come di Lionel Rogosin, del documentario etnografico e del cinema-verità: i riferimenti soliti sembrano inadeguati, e tanto i grandi narratori dello sprofondo urbano (Jarmusch) quanto gli esteti dello schifo grunge e sornione (Solondz, Korine) sono falsi parenti. È un cinema estremamente "situato" (dunque difficilmente esportabile, se non in un'ottica di schadenfreude dell'orrido), la cui coerenza può esporre a superficiali accuse di manierismo. I sei lunghi di Baker si inseriscono in un preciso format, i cui continui rimandi interni collocano all'interno di un unico grande reportage lo-fi del presente. Un saggio antropologico in più puntate, in divenire, termometro delle mutazioni sociali come somatizzate dalle fasce più marginali della popolazione statunitense. Ogni nuovo esperimento costituisce un capitolo a sé: organicità, non ripetitività.
Red Rocket azzarda dunque un compromesso sul piano strutturale, rimanendo intransigente su quello stilistico (l'unico che conti, alla fine). Improvvisazioni, dialoghi co-scritti da attori amatoriali, scene rubate, troupe da documentario e lavorazione di due settimane: anche nel vestito della commedia, Baker continua ad applicare quell'idea newyorkese di filmmaking "contro" all'America di oggi. Nel suo settimo film, il reale è però sconvolto dall'irruzione di un archetipo cinematografico: Mikey Saber (Rex) è il classico drifter, l'hustler, l'individuo losco che percorre il continente affidando la svolta al proprio carisma di sorridente manipolatore. È il pronipote spirituale dello Stan Carlisle di Nightmare Alley, come lui facile metafora per estensione del regista, il cinematografaro venditore di fumo e sogni. Parlando e vendendo(si), l'auto-proclamatosi leggenda del porno (in realtà poco più che uno sfruttatore di performer femminili) ipnotizzerà la putrescente cittadina natale, adescando la giovanissima Strawberry (Suzanna Son) come "nuova Sasha Gray" su cui costruire il proprio rilancio.
Per la prima volta è dunque il Cinema come oggetto a inserirsi in una filmografia rigorosamente contenutista. Il porno (inteso come reificazione della propria immagine) era già centrale in Starlet (2012), l'audiovisivo come forza affermante e distruttrice in Tangerine (2015): in Red Rocket, è però la messa in gioco del mezzo nella sua presenza fisica a veicolare l'esondazione del pornografico dallo schermo al quotidiano. Se i primi lavori del regista delegavano addirittura agli smartphone la testimonianza del reale, a coglierne i fotogrammi è ora uno slabbrato 16 millimetri alla Gerard Damiano, tra piani e montaggio da softcore eurotrash. Le vite degli attori-personaggi come il backstage di un film erotico semi-amatoriale di mezzo secolo fa, in cui la messa in vendita di sé come ultima unità di scambio è ormai lo stato naturale dell'essere. La "comunità" di Texas City seppellisce l'idealizzato sotto-regno inclusivo e solidale in un microcosmo predatorio, in cui la prossimità dei totem del successo non fa che spingere sempre più lontano la presa di coscienza della propria condizione.
Più sociologo che editorialista politico, l'auto-assegnata dimensione di analista dei deplorables confederati non si addice appieno allo sguardo dell'autore. I richiami a Trump, le bandierine bruciate e fumate, gli agganci allo schiavismo sudista: sembra che stavolta Baker non riesca a fidarsi fino in fondo del proprio cinema, e della sua possibilità di esprimersi attraverso il reale. In The Florida Project lo spettro di Disneyland tra i prefabbricati era un'entità assordante: in Red Rocket, l'autore si sente chiamato a intervenire scenograficamente, suggerendo metafore meno significative di quanto non siano i volti stessi dell'incredibile cast, ancora una volta composto di locali e passanti. Un film forse meno forte, ma coerente con gli standard di una voce chiave del cinema americano contemporaneo. Una delle poche da tenersi strette.