Il primo moto dell'immobile
Il primo moto dell'immobile o del viaggio al centro del suono
Il primo moto dell'immobile di Sebastiano d'Ayala Valva è stato il premio speciale della giuria nella sezione Italiana.doc del 36moTFF, motivato dall' "equilibrio solido e curato" nella ricerca d'un artista enigmatico, nonché per la tenerezza di chi affronta la morte da vicino.
Non v'è dubbio infatti sulla suggestione della composizione di certe inquadrature e dettagli, realizzata dall'autore, pur attraverso soluzioni visive semplici, e forse per questo più efficaci nel dare forma e significanza alla complessità di parole e concetti, sovente più ineffabili che silenti. Un silenzio che non è tacere, ma predisporsi all'ascolto di se stessi e in se stessi.
Sebastiano d'Ayala Valva medesimo è difatti voce narrante del suo documentare ed è allo stesso tempo commento esplicativo della voce narrata, oggetto principale d'indagine, ovvero le registrazioni delle memorie di Giacinto Scelsi, il personaggio e la parabola umana che vuol ricostruire e ripercorrere, meno per scopo divulgativo e dichiaratamente come pretesto per saldare il legame col proprio anziano padre, corpo debilitato, al tramonto della vita, che riposa fianco a fianco alla (pre)figurazione di tronco d'albero abbattuto, riverso e inerte. Sondare, quanto e se, sia possibile e percepibile il transito da questa ad altra forma di vita, dall'esserci l'uno accanto all'altro, all'esserci l'uno nell'altro, in un eterno, che è solo passaggio. E se ciò non fosse, molto più semplicemente, tuffarsi nel loro comune immaginario, àncora di salvezza creativa. E dunque, nascita nuova.
L'esposizione prende le mosse da un ricordo d'infanzia dell'autore, il turbamento della prima volta in cui suo padre gli fece ascoltare la musica inconsueta e ostica del compositore Giacinto Scelsi, loro lontano parente. Musica inquietante che suscitò in lui bambino la stessa avversione che ha accompagnato, fatte salve affini eccezioni, tutta la vita musicale di Scelsi. Egli stesso non fu a suo dire un artista-musicista (per lui una degradazione pari a dirsi artigiano, fabbricante senza spiritualità) bensì un medium delle sonorità divine induiste e in quanto tale mai si dichiarò autore delle composizioni manifestatesi tramite le sue mani e le sue intenzioni. Egli imparò a vivere come assenza corporea (solitario, non presenziava ad eventi e non si lasciava mai fotografare, così pure il documentario stesso non ne ricerca l'immagine ma si rimette a giochi d'ombre proiettate sul passato) egli era presenza sonora, genio–strumento disponibile e sensibile all'elettiva ispirazione creativa dell'universo, svincolato dal componimento orizzontale melodico e apollineo confortante, era al contrario proteso alla vertigine della distorsione roboante e magniloquente di una sola nota, alla eco delle profondità viscerali, al dionisiaco primigenio, alle forze del creato, che hanno nel suono per l'appunto il primo moto dell'immobile (quel medesimo "In principio era il Verbo"... o vibrazione). "Scelsi era talmente libero da sembrare matto", così bene lo definisce una delle musiciste, tra gli ultimi e pochissimi suoi collaboratori esecutori, che il regista incontra e intervista per carpire le fascinazioni e le emozioni che Scelsi ha lasciato dietro di sé, segnando indelebilmente non solo i suoi adepti, ma anche il suo autista, che scettico ma speranzoso crede alle parole del nobiluomo quando gli confidò che si sarebbe reincarnato in una maestosa palma.
Così sotto lo sguardo di Sebastiano, il misticismo va a confinare con la cinematica, teoria che studia le forme create dal moto oscillatorio delle onde sonore e le intonazioni gravi e tetre divengono colonna sonora di una sorta di arte ipnotica, quasi un fantomatico cinema Dadaista. Se la storia della musica colta per orchestra e concerto ha sempre guardato con sospetto agli scritti scelsiani, il cinema che oggi gli dedica una pagina probabilmente avrebbe (e potrebbe ancora) meglio apprezzare questa produzione "aliena", non tanto in performance visuali e video arte, quanto proprio nel genere sci-fi, che il corpus scelsiano con le sue gradazioni atonali ricorda d'impatto.
L'intuizione non nasce neppure da questa assonanza spicciola, quanto dal simbolo che identifica l'onda sonora scelsiana, un cerchio bianco dischiuso, che riporta alla mente la scrittura semasiografica al centro del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve. La scrittura, che la sceneggiatura vuole coniata da una linguista, proprio per comprendere il messaggio di esseri superiori discesi sulla terra, comportava le estreme difficoltà e le insidie della decodificazione, della traduzione e del fraintendimento, tanto da paventare una guerra planetaria. Ecco perché per vie poi magari non del tutto traverse, la stravaganza di Giacinto Scelsi appare in definitiva, e come lo stesso regista conclude, il monito di una disposizione d'umiltà verso la vita nel suo respiro più ampio, che è ciclo di momenti, coincidenze di inizi e fine, incarnatosi ogni volta in arti e menti illuminate poi davvero mai comprese dai loro pari (altrimenti tali non sarebbero) sempre sovversivi per il tempo storico, vittime della paura dell'ignoto, riscoperte dei posteri. La storia delle arti ne è piena di questi passaggi "di passaggio".