Seul Station
Il prequel animato di Train to Busan guarda direttamente al magistero di Romero ed evoca orrori zombie di chiaro stampo politico.
Dopo il tramonto, lontano dalle luci dei grattacieli, ogni metropoli mostra il suo lato oscuro.
Quello di Seoul è la stazione dei treni: un inferno di solitudini che si calpestano tra le fauci del progresso. Qui, un’umanità decomposta di emarginati (prostitute, senzatetto, disoccupati), ubriaca di egoismo, agonizza sui marciapiedi, sotto gli occhi indifferenti dei passanti, aspettando un’apocalisse imminente.
Niente sembra poter fermare l’avidità di storie scomode del regista sud-coreano Yeon Sang-ho, reduce dal successo mondiale del suo primo film live-action, Train To Busan, acclamato come uno degli horror più significativi degli ultimi anni. Infatti a pochi mesi dal suo esordio Yeon torna a rimestare nel torbido affidandosi al cinema d’animazione, suo habitat naturale, per consegnarci un fosco prequel, più cupo ed angosciante: Seul Station. Qui il giovane autore gratta sotto la superficie della sua città natale, per arrivare a mostrarci le cicatrici della Corea del Sud, consumata dagli effetti del capitalismo sfrenato: disparità sociali, tensioni politiche, repressione militare ed oppressione economica. Un disagio che viene riportato fedelmente sullo schermo, a partire dal microcosmo della stazione-prigione, focolaio di un virus di disillusione che infetta un popolo di perdenti a tutto tondo, la cui unica possibilità di rivalsa è diventare parte di un’epidemia zombie. Un morbo sociale che si diffonde tra i clochard, trasformandoli nell’arco di una notte da oppressi in oppressori; pronti ad azzannare alla giugulare la società coreana.
Seoul si prepara a cadere sotto un’ondata di violenza epidermica che costringe i pochi sopravvissuti ad una fuga disperata attraverso ospedali, stazioni di polizia, quartieri residenziali, ormai sotto assedio. Il regista si rifiuta di presentarli, sono i personaggi stessi ad assumere spessore agendo e parlando. Alcuni sembrano addirittura aver cancellato l’uso del pensiero, in un estremo tentativo di anestetizzarsi dalla realtà.
La struttura narrativa è quella del survival horror di stampo classico. Un manipolo di sconosciuti si trova, suo malgrado, a far fronte comune per scampare al contagio e garantirsi una chance di salvezza, mettendo a repentaglio quella dei propri compagni. Alcuni ce la faranno, altri moriranno nel tentativo di provarci. Tra questi troviamo Hye- sun, un’adolescente marchiata da un passato di soprusi. La ragazza si fa largo tra schiere di morti viventi e vivi morenti, regalandoci alcune delle scene più cruente e memorabili della pellicola. Inseguita, a debita distanza, da due figure maschili ambigue e persecutorie: il subdolo fidanzato Ki-wong, che l’ha costretta a prostituirsi per mantenerlo, e il prepotente Suk-gyu, un anziano signore che si spaccia per suo padre. I tre si ricongiungeranno soltanto nel tragico finale, quando la rivolta granguignolesca degli zombie avrà assunto del tutto le sembianze di una mastodontica sommossa popolare. Solo in questo frangente assistiamo alla resa dei conti tra i veri protagonisti della guerriglia urbana in atto: l’orda famelica dei riottosi infettati e le sedicenti forze dell’ordine; le stesse che, nella realtà, hanno sedato con le armi le speranze di una maggior democratizzazione del paese.
"Raccontare per resistere" è l’imperativo del cinema militante di Yeon Sang-ho che rielabora la metafora politica corrosiva degli zombie romeriani, confezionando un prodotto maturo, rivolto ad un pubblico adulto. Un film in cui albergano due anime: quella collettiva dell’horror impegnato e quella individuale di un intenso dramma umano. Del resto, fin dagli esordi, il regista non ha mai perso occasione per denunciare apertamente i soprusi perpetrati dalle istituzioni coreane nei confronti dei propri cittadini. Per farlo ha sempre utilizzato la grammatica dell’animazione. Nel 2011 è stato il turno di The King of Pigs, un ritratto spietato del bullismo insito nel sistema scolastico coreano. Nel 2013 segue The Fake, un duro attacco al bieco proselitismo delle istituzioni ecclesiastiche nelle province più povere. Fino ad arrivare a questo Seoul Station, una cronaca, rivisitata, delle efferatezze del braccio armato dello Stato contro i “diversi” che manifestano nelle piazze della capitale. Seon è l’unico esponente della cosiddetta K-Animaton (animazione coreana) in grado di trattare temi cosi controversi, attraverso un linguaggio che in Corea non si è ancora svincolato del tutto da certi retaggi infantili (Pororo the Little Penguin) e dalla riproposizione degli stilemi giapponesi (Robot Taekwon V). La messa in scena delle sue opere è del tutto differente, coraggiosa sia nelle intenzioni che nella realizzazione. L’aspetto che rimane impresso, durante la visione, è la cifra stilistica delle sue animazioni, tese a risaltare le caratteristiche autoctone dei personaggi e i relativi profili psicologici. Tra tutti spicca il character design altero dei protagonisti (visi scavati, sguardi crucciati, corpi accennati), quasi a voler incrinare anche a livello estetico qualsiasi parvenza di ottimismo nei confronti del genere umano. Lo stesso vale per le ambientazioni: scenari spogli, minimali, impreziositi da pochi dettagli che acuiscono il senso di desolazione.
Il pregio maggiore di Seoul Station, pur essendo ufficialmente l’antefatto degli eventi che coinvolgeranno il convoglio diretto a Busan, è quello di essere perfettamente autosufficiente dal capitolo successivo, cui non ha nulla da invidiare. Anzi, a differenza del suo sequel in live-action, che ammicca spiccatamente ad alcuni prodotti mainstream del filone zombie contemporaneo (The Walking Dead, World War Z), questo prequel recupera un’attitudine autoriale; più vicina all’ istintualità e alla libertà creativa di film seminali dell’horror underground come Zombi di Romero e Distretto 13 – Le brigate della morte di Carpenter. Ma se le strade di Seoul sono in fiamme, i binari per Busan sono lastricati di cattive intenzioni.