Train to Busan
Train to Busan è un viaggio claustrofobico sui binari dell’(in)civiltà
Un cervo insanguinato si rianima sul ciglio di una strada di campagna, dopo essere stato investito; fissando con occhi vitrei la telecamera. Questo è lo spettacolo che si presenta, in pieno giorno, agli spettatori increduli di Train To Busan, attraverso una panoramica che suggerisce, sottilmente, come la misteriosa epidemia zombie, che ha messo in ginocchio Seoul (Seoul Station), sia ben lungi dall’essere sotto controllo. Yeon Sang-ho inizia il suo viaggio nel mondo del live-action e lo inizia in treno, ideale trait d’union tra questo capitolo della saga e il suo prequel in animazione. Tuttavia, non si tratta né di un treno tradizionale, foriero di romantiche fascinazioni (Le Cinque Chiavi del Terrore), né di un treno distopico (Snowpiercer) ma di un mezzo moderno, ad alta velocità, della KTC (Korean Train Express). Quello che è diventato, a tutti gli effetti, il simbolo della contemporaneità e il vanto di un paese ipercompetitivo, votato ad infrangere ogni regola in nome della tecnocrazia dominante; un paese dove il futuro è già iniziato, sotto cattivi auspici.
Infatti le città sono ormai presidiate da un esercito di infetti idrofobi, la popolazione è in quarantena, le comunicazioni sono interrotte e l’unica speranza di evitare il contagio e ricongiungersi con i propri affetti è l’ambito convoglio diretto da Seoul a Busan. Ma il prezzo da pagare sarà più alto di quanto si possa immaginare per i passeggeri a bordo, coinvolti in una lotta intestina/di classe, senza esclusioni di colpi, per difendere quel che resta della propria umanità. Un patrimonio prezioso minacciato da una mostruosità dilagante: quella esteriorizzata da uno sciame di zombie, che si accalca fuori e dentro i vagoni; e quella interiorizzata che serpeggia tra i viaggiatori armati di sordido cinismo, per cui la vita non ha più valore e perderla è facile quanto toglierla agli altri. A farne le spese saranno: Seok-woo (Gong-yoo), un rampante manager divorziato, in viaggio con sua figlia; il burbero operaio Sang-hwa (Ma Dong-seok) con la sua compagna incinta; l’impetuoso Yong-suk (Kim Ui-seong) capitano di una squadra di baseball e la sua fidanzata.
Train to Busan è un viaggio claustrofobico sui binari dell’(in)civiltà, in cui il regista Yeon Sang-ho approfitta dell’ambiente ristretto del microcosmo-set del treno, allegoria dei compartimenti stagni del sistema sociale coreano, per esasperare le caratteristiche dei suoi personaggi, un campionario umano variegato che si arricchisce di nuovi volti e nuove sfumature, grazie all’interpretazione di attori in carne ossa. In questo caso, il regista amplifica ulteriormente il divario sociale tra i protagonisti, coinvolgendo contemporaneamente sia la schiera dei “perdenti”(un barbone, un operaio), sia quella dei “vincenti” ( un industriale di successo, un giocatore di baseball). Il fulcro del film risiede proprio nel continuo scambio di ruoli tra le due fazioni, in un crescendo di difficoltà, vagone dopo vagone, in cui singoli personaggi sono costretti a sviluppare tutte le skills disponibili(empatia, integrazione, tolleranza) per maturare quello spirito sinergico necessario per sopravvivere ma soprattutto per accettare il cambiamento, come condizione fondante della condizione umana. In tal senso si rivela fondamentale l’apporto delle figure femminili (madri, figlie, compagne) portatrici di un punto di vista altro rispetto al contributo maschile. In particolar modo quello della piccola e talentuosa Soo-ann (Kim Soo-ann), impegnata a ricucire il rapporto scheggiato con un padre assente e a difendersi dagli attacchi degli adulti che cercano di corromperla, schiacciati dal peso di colpe inconfessabili.
Nonostante la maggior parte delle azioni si svolga prevalentemente all’intero del treno, la messa in scena è sontuosa, merito di un budget elevato, come dimostra la potenza visiva delle situazioni corali, in cui migliaia di zombie piovono dall’alto degli edifici, corrono, si contorcono, azzannano; come un corpo unico che cerca di inghiottire il mondo. Dal punto di vista estetico, le creature sullo schermo sono rapide, voraci, letali, testimoni della svolta dinamica inaugurata da Zack Snyder nel suo remake di Dawn of the Dead alle soglie del duemila. Dal punto di vista concettuale invece, questa disordinata iperattività ci presenta questi zombie moderni, come simulacri di esistenze frenetiche, in cui si rispecchiano anche altri personaggi della pellicola: figli dell’allucinazione di un maggior profitto nel minor tempo possibile, a scapito delle persone e dell’ambiente che li circonda. C’è uno rapporto stretto tra lentezza e memoria, velocità ed oblio; lo stesso rapporto che intercorre tra gli esseri umani, in grado di ricordare e gli zombie condannati a dimenticare. Un confine labile, che Yeon- Sang- ho non smette mai di voler rimarcare.