Sgomberi

Sgomberi, nome più che appropriato per un documentario che apre la scena non coi soliti titoli di testa ma con varie sequenze appunto, di sgomberi casalinghi veri e propri, che tuttavia sono solo il pretesto iniziale per approfondire dei temi di natura ben più solida e di stampo sociale. Ci piace, e funziona molto bene il breve montaggio iniziale presentatoci nella prima sequenza. Nessun virtuosismo o tecnicismo particolare, ma certo un’azzeccata sinergia tra le varie dimensioni del cinema; immagine, spazio, tempo e musica, che trovano nella chiarezza e nella semplicità la chiave per una piacevole e fruibile visione. Quasi un montaggio alternato, in cui parecchi tagli, inquadrature brevi e anche un paio di jump-cut, fungono da tagliafuoco per potenziali punti morti e rallentamenti temporali, che vengono intelligentemente evitati grazie al suddetto utilizzo dinamico del montaggio, che ha come severo direttore d’orchestra il suono.

Una scelta intelligente dunque quella del regista Michael Beltrami, che in questo modo cattura la nostra attenzione sin dalle prime battute stimolando la nostra curiosità con la vivacità delle immagini. E siamo felici di riscontrare che anche il ritmo del resto del documentario non delude sotto questo aspetto, mantenendosi in un certo qual modo dinamico e accattivante, seppure nei “limiti” imposti dal genere. Nei suoi 55 minuti Sgomberi ci mostra la realtà del centro di raccolta e riciclaggio mobili Emmaùs, operante In Svizzera; più precisamente nel Ticino. Qui vediamo come Emmaùs svolge non solamente l’attività di ri-vendere l’usato, ma si occupa anche e soprattutto di accogliere fra le sue mura gli emarginati della società, come senzatetto, ex-tossicodipendenti e sfollati, offrendo loro vitto e alloggio in cambio di lavoro.

Così comincia il nostro viaggio tra i volti, le storie e le esperienze del “personale” che abita, lavora e vive tra le mura del centro. In questo viaggio salta subito all’occhio una peculiarità accennata poco prima; è’ interessante notare infatti come, nel susseguirsi delle varie sequenze, il suono, più nello specifico la musica e il rumore, giochino una parte fondamentale in questo documentario. L’esempio lampante lo troviamo calcato e ribadito nella sequenza che si svolge nella camera di Federico, il più anziano degli operatori dell’Emmaùs. Questa è senza dubbio la sequenza più inusuale ed espressiva dal punto di vista registico; nella quale vediamo dozzine e dozzine di statuine di santi e madonne che sfilano grottescamente come idoli davanti all’obiettivo della telecamera. In questo contesto assistiamo all’introduzione da parte del regista di una tecnica propria del linguaggio cinematografico di fiction, che rende palpabile l’importanza che il suono ricopre nel documentario tutto. Infatti vediamo come il jingle del carillon, caricato a inizio sequenza da Federico, muta da diegetico ad extra-diegetico, accompagnando in questo modo tutte le inquadrature, caricando ancor più di espressività le già grottesche immagini delle sante icone. Ma il suono è anche il collante che unisce i vari tagli da una sequenza all’atra, e che ci ridesta dal possibile torpore dei sensi. Anche in questa occasione il regista adopera un espediente estremamente semplice, ma proprio in virtù di tal fatto efficace. Difatti quando una sequenza si protende nel tempo, e rischia di oltrepassare l’importante soglia dell’attenzione, ecco che il regista interviene immediatamente introducendo la sequenza successiva con i più vari effetti sonori; dalla semplice musica di sottofondo a un armadio fatto piombare a terra, dal cuoco che batte violentemente la carne sul tavolo al pendolo che rintocca sei volte annunciando la chiusura del negozio. In questo modo il suono interviene bilanciando la pesante atmosfera che si viene a creare durante le dirette interviste ai “dipendenti” dell’Emmaùs, nelle quali questi emarginati si aprono alla videocamera, e quindi agli estranei, raccontando le loro esperienze.

In questo senso il regista riesce a fare un ottimo lavoro sottraendosi dalla scena fino quasi a scomparirne. Beltrami infatti decide di portare avanti il documentario non come un intervista aperta, e rinunciando al “botta e risposta” tipico del giornalismo; egli invece realizza lunghe inquadrature in cui i protagonisti ripresi narrano semplicemente la loro storia e i loro problemi, quasi come fossero in un confessionale. Il regista quindi si tace, e lascia che siano le parole dei “protagonisti” a farci arrivare il messaggio dell’opera. Ed è proprio per questo motivo che Sgomberi viene avvertito come un prodotto vero, sincero, perché gli intervistati si scoprono davanti a noi raccontandoci loro stessi e le loro difficoltà, si mettono a nudo rivelandoci addirittura, in un caso estremo, di volgere quotidianamente il pensiero al suicidio. Va sottolineato però, che non dobbiamo mai dimenticare di contestualizzare il tutto considerando sempre la finzione, che è ovviamente inevitabile poiché intrinseca del media cinematografico. Detto questo sarà proprio l’ex-tossicodipendente Arturo (forse “l’attore” principale del documentario) a sintetizzare in una massima, derivata dai suoi dolorosi trascorsi personali, l’importante verità che questo lavoro vuole ricordarci: “Puoi sgombrare quello che vuoi poi alla fine la polvere resta; ed è quella che alla fine pesa.”

L’Emmaùs è un centro importante per questi ragazzi/uomini che vivono ai margini della società, e rappresenta una sorta di Oasi, di ristoro. Tuttavia esso non è né la risposta alle loro domande né la soluzione ai loro problemi, ma è piuttosto un luogo amico, in cui essi trovano il modo per cercare in loro stessi le risposte che da sempre vanno cercando.

Autore: Giacomo De Vecchis
Pubblicato il 12/02/2015

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