Shanda's River
Nella provincia di Pavia streghe e adepti sono destinati a scontrarsi in eterno
La penuria monetaria è il limite insormontabile delle piccole produzioni cinematografiche. Quando i soldi non ci sono, non basta la buona volontà per farli apparire. Se nel cinema ufficiale, quello che usufruisce di fondi statali, per basso budget si intendono cifre che ruotano intorno ai 500 mila euro, nell’horror underground è più facile che si lavori con un preventivo vicino ai 10 mila. È chiaro che il rapporto 50 a 1 non permette alcun confronto tra i due mondi e gli svantaggiati devono adeguarsi alle proprie ristrettezze. La carenza di liquido si traduce in storie con pochissimi personaggi e, solitamente, un’ambientazione unica. Non è esattamente così per Shanda’s River di Marco Rosson dove all’unità spaziale si preferisce una ripetitività temporale. L’idea dello stesso giorno che si riavvolge e ricomincia non è di per sé originale. Da quando Bill Murray venne costretto a rivivere all’infinito il Giorno della Marmotta, di commedie incentrate sul medesimo tema ne sono state realizzate a dozzine. L’aspetto davvero interessante nella sceneggiatura di Nicola Pizzi è la sua declinazione in chiave orrorifica. Il dì in cui resta intrappolata la protagonista è quello della sua morte. Come Prometeo è costretta a subire il quotidiano supplizio senza potersene sottrarre.
Emma è una professoressa universitaria giunta a Voghera per studiare la violenza subita dalle donne vittime dell’Inquisizione e più in generale della superstizione. Nell’hotel in cui alloggia conosce Daniel, un giornalista interessato agli omicidi rituali riconducibili ai Redivivi, un ordine segreto di origine medievale nato per fronteggiare le streghe. Ambientato nella provincia lombarda, la stessa che tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo millennio fu cupo teatro delle Bestie di Santana, Shanda’s River non può che avere una setta come antagonista. Gli adepti del misterioso ordine si palesano ben presto uccidendo la protagonista al diciottesimo minuto. Come premesso, la fine è solo l’inizio di un loop temporale in cui Emma si risveglia puntualmente alle 4:00 dell’undici novembre 2016 per essere assassinata ancora nell’arco della giornata. Se l’assunto è angosciante, la messa in scena non rende al meglio la costruzione della suspense. Gli omicidi infatti si svolgono quasi sempre in pieno giorno e in spazi aperti, diluendo inevitabilmente la tensione. La piena consapevolezza dell’ineluttabilità di una morte violenta assume i tratti dell’apatia sul volto della protagonista ma anche nell’occhio del regista. Un peccato perché la predestinazione non diminuisce la paura bensì l’accentua.
Tecnicamente Shanda’s River è ben confezionato, sebbene presenti lievi difetti che passeranno inosservati alla maggior parte degli spettatori. Nel montaggio di Giorgio Galbiati, ad esempio, le inquadrature del percorso stradale che conduce al luogo del primo omicidio non raccordano perfettamente tra loro e sono montate con un’alternanza diversa durante il secondo viaggio. Negli interni invece, per evitare un’eccessiva staticità delle immagini, si fa un uso smodato dello slider che permette i movimenti orizzontali della camera ma senza metterli in relazione a un discorso espressivo. In parole povere, le carrellate risultano gratuite e a lungo andare fastidiose. Queste e altre constatazioni appaiono quasi superflue quando ci si ricorda che si sta parlando di un film che nasce con uno svantaggio di 50 a 1 e, nonostante tutto, è in grado di riscuotere premi e consensi nei festival internazionali. Probabilmente una delle carte vincenti nel lungo di Rosson è il non rinunciare alla propria identità culturale a favore di una neutralità globalizzata. Il territorio con la sua storia si fa protagonista della vicenda, sebbene il film sia ugualmente girato in inglese per sottostare alle leggi di mercato. A tal riguardo, appaiono divertenti i personaggi che mettono le mani avanti scusandosi per la pronuncia non perfetta.