The Shape of Water
Guillermo del Toro fonde nuovamente fiaba e realtà regalando agli spettatori un dramma d’amore di rara potenza.
«Se vi dovessi parlare di lei, la principessa muta, che potrei dirvi? Vi dovrei parlare del quando? È successo tanto tempo fa durante gli ultimi giorni di regno di una Principessa delle fate. O vi dovrei parlare del posto? Una piccola città vicino alla costa ma lontano da qualsiasi altra cosa. O forse dovrei mettervi in guardia sulla veridicità di questi fatti e sulla favola dell’amore e della perdita, e del mostro che ha tentato di distruggere tutto».
Dopo qualche occasione sprecata, è con queste frasi che Guillermo Del Toro torna al territorio che gli è più congeniale: quello in cui l’universo fiabesco si scontra duramente con una ben precisa realtà storica. Insomma, lo schema drammaturgico de Il labirinto del fauno, film che diede al regista messicano la notorietà internazionale, viene replicato anche in questo nuovo The Shape of Water, visto in concorso a Venezia 74. Con un innesto funzionale all’esplorazione di anfratti oscuri e materici: l’amore e il sesso restituiscono corpi vergini e corrotti nascosti sotto apparenze completamente opposte.
La vicenda è ambientata nell’America dei primi anni ’60, in piena Guerra Fredda. In un laboratorio di massima sicurezza, legato a ricerche sulle più avanzate tecnologie in materia aerospaziale, viene tenuta prigioniera una creatura anfibia catturata in Amazzonia. Il dramma, evitando di indugiare sulla spedizione che ha portato alla sua cattura, ha inizio dalla detenzione e dagli esperimenti che vengono condotti su questo mostro della laguna, una sorta di divinità che stravolgerà i destini di tutte le persone entrate in contatto con lui. Parallelamente, lo sguardo della macchina da presa trascina lo spettatore nella quotidianità ordinaria di Elisa (Sally Hawkins), la principessa senza voce, una tenera ragazza che si occupa delle pulizie del laboratorio e che abita in un appartamento ubicato sopra un cinema. A tenerle compagnia è il suo migliore amico Giles, un disegnatore di manifesti solitario, un “reietto”, come si definisce più volte, interpretato da Richard Jenkins. Le giornate trascorrono simili, tra voli immaginari ed umiliazioni lavorative, fino a quando Elisa entra in contatto con la creatura anfibia e con la sua nemesi, Strickland (Michael Shannon), responsabile della sicurezza del laboratorio.
Arrivato quasi in sordina nel corso della carriera dell’autore, The Shape of Water è un meraviglioso omaggio ai monster movies della Universal con cui del Toro è cresciuto. L’ordinarietà degli scenari quotidiani viene più volte forzata, alla ricerca di quel quid magico che ne costituisce il sostrato. In un contesto del genere, del Toro porta a compimento lo struggimento di una storia d’amore tra diversi che non cade mai nel patetismo né nella compassione. Nonostante l’eccentricità della costruzione scenografica e delle dolci note di Alexandre Desplat possano dar adito a rimandi all’universo cinematografico da bigiotteria di Jean-Pierre Jeunet, The Shape of Water si attesta su un binario differente: quello della passione per un mondo da restituire tramite una serie di forzature e di cortocircuiti che evitano l’affresco autoreferenziale e privo di vita. È in questo mix di generi e di personaggi vigorosi che del Toro sviluppa la più tradizionale delle fiabe, quella che da Big Fish al già citato Il labirinto del fauno, fino ancora a Lady in the Water, vede intrecciarsi personaggi di regni alieni scrivere storie d’amore con la pena e la sofferenza del loro sangue. Uomini e donne in preda a rêverie ed in grado di spingere lo sguardo al di là del loro Covington, verso un universo soltanto immaginato ma non per questo privo della possibilità di esistere. Nella speranza che la stessa magia possa essere replicata dagli spettatori all’interno di una sala cinematografica.