Zombie contro zombie (One Cut of The Dead)
Presentato al Far East Film Festival e distribuito in Italia dalla Tucker Film, il film di Shinichiro Ueda è un piccolo gioiello che unisce ironia e riflessione sul linguaggio, partendo dai morti viventi per finire alla magia della finzione cinematografica.
Poche cose sono agli antipodi rispetto al concetto di “originalità” quanto l’idea di produrre l’ennesimo film sugli zombie. Tutti gli aspetti di questo tropo narrativo concettuale, da quello sociologico a quello squisitamente orrorifico, fino al comico, sono stati sfruttati da cinema, letteratura e videogiochi. Shinichiro Ueda è invece riuscito nell’impresa non da poco di trovare un nuovo punto di vista per la sua opera prima, Zombie contro Zombie (One Cut of The Dead): ispirato da un’opera teatrale, Ghost in the Box, l’autore usa i morti viventi per riflettere sulla macchina del cinema e divertire lo spettatore.
Distribuito nelle sale grazie alla sempre più coraggiosa e indispensabile Tucker Film, Zombie contro Zombie è un piccolo film con un grande cuore, il cui successo fulmineo e inaspettato ha fatto ricordare a molti il caso di The Blair Witch Project.
È necessario entrare nel vivo della trama per trasmettere l’intelligenza con cui Zombie contro Zombie è costruito.
La prima mezz’ora del film ci mostra una storia piuttosto convenzionale, per quanto gustosa e divertente: un regista esasperato cerca di girare la sua opera a tema zombie in un edificio abbandonato, che si rivela essere davvero infestato dai morti viventi. Dopo l’ennesima sfuriata, il regista mette in campo i veri morti viventi e la sua troupe si trova ad affrontare la sua follia e lottare per la sopravvivenza. Una mezz’ora di film in una sola inquadratura, rocambolesca e divertente, che gioca con attori volutamente sopra le righe e stranezze che sembrano attribuirsi ad una produzione sgangherata. Quando si arriva al finale scorrono i titoli di coda dell’opera: qualcosa non torna, ed è chiaro che manca almeno un’ora alla fine del film. In questo attimo di smarrimento, lo spettatore capisce che qualcosa gli è stato nascosto. La curiosità di sapere che cosa sta realmente guardando trattiene lo spettatore e lo ingaggia in un gioco autoironico e metalinguistico con l’autore.
Rewind: un mese prima. Quello che segue è il racconto di come il film che abbiamo visto nel primo “atto” è nato: scambi di idee, spogli di sceneggiatura, casting e discorsi che ci aspettiamo da un documentario dietro le quinte. Permane, però, la sensazione di uno scollamento, di particolari che non collimano con quello che abbiamo visto in precedenza. Risulta presto chiaro che il regista-personaggio del film è in realtà il regista di One Cut of The Dead, lo zombie-movie che abbiamo appena guardato, ma il personaggio del film è interpretato da un altro attore che non abbiamo mai visto prima... scopriamo, inoltre, che il film verrà trasmesso in diretta televisiva: non sono ammessi errori né secondi tentativi.
La terza parte del film ci riporta all’inizio, ma da una prospettiva diversa: è l’ora delle riprese, che dovranno continuare ad ogni costo e a dispetto dell’impressionante numero di imprevisti che, naturalmente, renderà la realizzazione dell’impresa a dir poco complicata.
La graduale risoluzione del puzzle messo in campo da Ueda è gratificante, ed è amplificata dalla posta in gioco registica della ripresa continua: un’emozione derivata, ed è un’impresa non da poco, da un vincolo linguistico (il one cut, la singola inquadratura continua) e dal prodigio tecnico di un cinema senza trucchi di montaggio. Una continuità magica a dispetto dell’imperfezione della macchina delle immagini, prodigiosa quanto lo era negli appassionati scritti di Bazin e degli infuocati teorici del piano sequenza: i pezzi cominciano a combaciare e l’incantesimo regge, va avanti a dispetto di ostacoli e improvvisazioni forzate; i piani narrativi si moltiplicano e piccole storie emergono ai margini: il rapporto tra il regista, sua moglie e sua figlia, rivalità e ambizioni nella troupe, problemi intestinali e postumi di sbronza. La banalissima riuscita dell’inquadratura finale del film ha il sapore di un trionfo.
Il piacere di guardare Zombie contro Zombie è il piacere della narrazione, puro e semplice. È il piacere delle trovate comiche incalzanti, dei continui ribaltamenti (che arrivano a coinvolgere anche i titoli di coda), del gioco degli smarrimenti accuratamente costruiti e amplificato da una grande fiducia nello spettatore.
Con pochi soldi e l’intelligenza per fare dell’arte povera un punto di forza, l’autore usa tutti gli strumenti di un linguaggio low budget: attori sconosciuti, riprese sgranate e con gamma dinamica ridottissima prima e, nella seconda parte, lo stile di un documentario dietro le quinte. B-movie, mockumentary e metacinema concorrono a costruire un oggetto cinefilo gustoso e imprevedibile, che salta da un livello narrativo all’altro e usa un tropo narrativo decotto per raccontare altro, giocandosi tutto sulla forza delle idee.
Questo piccolo grande film, che ha subito incantato il pubblico del Far East Film Festival, merita di essere amato e sostenuto perché sa fare qualcosa che accade sempre più raramente, e che a livello produttivo è sempre più difficile realizzare: sovvertire completamente le aspettative del suo pubblico e, superata questa piccola e necessaria delusione, portarlo verso nuovi orizzonti e nuovi viaggi cinematografici.