Un paese di Calabria
L'Utopia Riace, prima della Questione Riace, nella docu-fiction "Un paese di Calabria"
C'era una volta Riace, un Paese (quasi del tutto disabitato) di Calabria.
Qui erano custodite due preziose statue di bronzo, rinvenute dopo un naufragio di molti anni or sono. Da ogni dove giungevano visitatori di passaggio per ammirare questi autentici tesori raffiguranti la bellezza della persona umana in tutta la loro perfetta riproduzione. Finchè un giorno approdarono sulle stesse sponde dei naufraghi, profughi scampati prima alle angustie e alle miserie di terre lontane e poi alle intemperie del mare, e di nuovo Riace, come nel mito biblico, salvò dalle acque, ma questa volta uomini in carne ed ossa, autentica umanità toccatale in sorte, non per essere contemplata, ma per essere realizzata in un disegno di accoglienza diffusa, che portasse speranza di prosperità continua, sia al luogo ospitante che ai nuovi volti e alle nuove braccia ospitate in quelle case e botteghe abbandonate. E mentre il mare continuava a sospingervi barconi d'uomini da attraccare, un crogiolo di lingue e culture si radicava alle originarie tradizioni, le mura di pietra s'impregnavano di nuove e feconde memorie. Ancor più Riace divenne meta d'interesse, "modello" di ripresa economica solidale. Nel bene e nel male, Strategia di Vita.
Come narrare (come avrebbe narrato Calvino per esempio?) un luogo diventato invisibile, perché abbandonato da abitanti partiti in cerca di fortuna e poi di nuovo ripopolatosi perché esso stesso divenuto approdo di dignità per uomini e donne anch'essi scampati a sventure e disgrazie? Come narrare di questa utopia dell'accoglienza fatta di ospitalità in libertà e non di ostilità burocratizzata? Ovvero dell'atavica conflittualità dell'etimo "Hos", nell'ambivalente accezione di oste e straniero, chi riceve e chi dà accoglienza (...ancor più nel risvolto di accettare e gradire!) di contro al labilissimo margine di sconfinamento in "Hos-t", straniero come nemico, pregiudizio imperante? Come e quanto fantasticare sulla ri-generazione dei luoghi, nel senso letterale di bambini venuti a rianimare non tanto strade e scuole, quanto gli sguardi anziani, le menti intontite e irrigidite, svigorite dalle separazioni, gli affetti lontani e perduti, quotidianità di passi vuoti e silenti?
Di questa realtà di fatti, da quasi un decennio, s'è fatto carico un certo cinema, purtroppo coerentemente coi fatti stessi, marginale, eterogeneo rispetto alle consuetudini produttive e distributive, di fatto esistente e di cui Un paese di Calabria, diretto dalle registe italo-francesi Shu Aiello e Catherine Catella, per le case di produzione indipendenti Tita Productions, Marmitafilms, Les Productions JMH e BoFilm (unica italiana), è l'ultimo titolo. La docu-fiction del 2016, come la filmografia che la precede sull'argomento ( Il Volo, cortometraggio di finzione di Wim Wenders per Sky Cinema, 2010; Il Sogno a Mezzogiorno, documentario incompiuto del regista calabrese Fabio Mollo, 2009) incontra e raccoglie le testimonianze della popolazione locale, registra la celebrazioni sacre (i battesimi interreligiosi di intere famiglie) e politiche (consigli comunali, campagne elettorali), nonchè i più latenti e contraddittori stati d'animo gettati alla mercede dis-orientabile dei mass-media, e sul plot liricizzato della rievocazione delle migrazioni di massa dal Meridione all'estero, conclude la propria narrazione ignara e ben prima che il "Modello Riace" diventi la "Questione giudiziaria Riace" dei giorni nostri, sedicente criminalizzazione e abuso delle pratiche di accoglienza e solidarietà, ai confini dell'interpretazione delle leggi precostituite. Un discorso sull'immagine, come reputazione e consenso di opinione comune (in primis antropologicamente dell'uomo su se stesso e il suo simile), attraverso le immagini, dunque (se con elissi quasi Kubrikiana) si salta dalla scultura ellenica allo stop inferto alla lavorazione della fiction Tv dedicata al luogo, sopraggiunto in seguito all'arresto del sindaco in carica Mimmo Lucano lo scorso Ottobre, sotto l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, proprio all'interno della medesima gestione dell'accoglienza che lo aveva portato agli onori esemplari delle istituzioni internazionali. E più l'immagine attraverso le immagini prende ad essere oscurata e travolta da faziosità, speculazioni, macchina del fango, più le immagini si dimenano e svincolano dagli schemi e schermi canonici attraverso la mobilitazione distributiva che risale dal basso e dalla rete, per fare rete e resistenza. Un paese di Calabria (c'è da dire visto da quasi 40.000 spettatori in Francia, secondo fonti ufficiali) poggia in parte sulla circuitazione della piattaforma MovieDay e sulla coordinazione nazionale di centri d'accoglienza, per sbarcare volutamente e gratuitamente sul Web, attraverso uno streaming di 48 ore a sostegno della campagna di solidarietà "Riace non si arresta". Stesso dicasi del regista su citato Fabio Mollo che attraverso il proprio canale Vimeo ha reso definitivamente pubblico e legale il proprio lavoro documentario per le medesime ragioni.
Il Sud è niente, recitava il titolo dell'opera prima di Mollo, storia di una adolescenza combattuta nel Sud delle mafie occultate e delle sparizioni spontanee o violente, "Il Sud è niente... e niente vi accade" recitava a conferma della cecità omertosa. Ma le immagini cinematografiche, che ingannano la retina e vi si inchiodano, documentano il contrario, a Sud qualcosa accade, accade il ritorno, accade la rinascita, accade la possibilità dell'alternanza al modello unico multiculturale. Accade un futuro. Accade che se la perfezione del modello resta l'utopia (I Bronzi di Riace) la sua perfettibilità uman(itari)a può attecchire ancora e altrove, ben al di là di un solo "Paese di Calabria".