I segni del cuore – CODA
Nel passaggio da commedia a dramma sentimentale, il remake de "La famiglia Belier" diventa un classico coming of age su una ragazza in bilico tra due mondi, alla ricerca della propria voce
Ruby (Emilia Jones) è un'adolescente con un vero e proprio talento per il canto. Peccato che nella sua famiglia nessuno possa sentire la sua voce. Perché Ruby è figlia di persone sorde, una Child of Deaf Adults (CODA, appunto), una condizione che inevitabilmente finirà per scontrarsi con le sue ambizioni, portandola sul punto di (pensare di) dover scegliere tra sogni e affetti.
È un cambio di prospettiva considerevole quello che, sin dal titolo, caratterizza I segni del cuore – CODA, remake americano de La famiglia Belier e premio Oscar 2022 come Miglior film. Una dichiarazione d'intenti che dimostra come il film diretto dalla statunitense Sian Heder (Tallulah) voglia questa volta puntare maggiormente l'obiettivo, anziché sulla famiglia e la sua disabilità, proprio sulla protagonista e sul suo particolare coming of age, sul suono e la voce piuttosto che sulla sua assenza. Uno scarto lieve ma significativo rispetto all'originale francese che meglio si adatta alla nuova realtà consentendo al film di farsi portatore di uno sguardo differente, in linea con i temi, i valori e la sensibilità d'oltreoceano.
Sembra in tutto e per tutto parte di quel contesto, infatti, il film della Heder. Non solo per il maggiore individualismo che sottende e per l'ambientazione (una cittadina di pescatori del Massachusetts) ma anche per le sue dinamiche da teen drama, per la sua irrinunciabile estetica indie e per la sua tensione incalzante da film sportivo.
D'altronde, era inevitabile che una storia come quella de La famiglia Belier conquistasse anche il cinema statunitense. Non solo e non tanto a causa di un'industria sempre più attenta alle narrazioni inclusive (l'anno scorso, in corsa agli Oscar, c'era Sound of Metal) ma per una fascinazione antica, come dimostra qui la presenza dell'attrice Marlee Matlin, prima interprete non udente a ricevere una statuetta per Figli di un dio minore. È proprio la scelta di far interpretare tutti i membri della famiglia da vere persone sorde (provenienti dal Deaf West Theatre di Troy Kotsur, qui nel ruolo del padre e premiato a sua volta come miglior attore non protagonista) la principale novità del film. Una scelta coerente e legittima che però non gli impedisce di cadere, nonostante tutto, in una programmaticità evidente. Toccando doviziosamente ogni svolta da manuale, è come se il film non riuscisse infatti a nascondere l'ingombrante peso di una sceneggiatura spesso impaziente di toccare le sue tappe obbligate e ben più tradizionale di quanto possa apparire a prima vista. Perché mantenendo Ruby protagonista assoluta, a perdersi, ancora una volta, è l'occasione di guardare e raccontare veramente la disabilità dall'interno, preferendo incrociarla in maniera incidentale, attraverso lo sguardo di un eroe che la “subisce”, mettendola in secondo piano (un po' come già era avvenuto col razzismo per Green Book).
Non che CODA non sappia mantenere una certa autenticità di fondo o che gli interpreti non siano all'altezza (anzi, dalla Ruby della sorprendente Emilia Jones in giù poco gli si potrebbe rimproverare), nemmeno che non sappia usare al meglio il mezzo per rendere tangibile lo straniamento dei suoi personaggi, facendo della voce uno strumento di passaggio da un mondo all'altro. Eppure è difficile non vedere in questa quintessenza di film “da Sundance” (festival dove, ovviamente, ha fatto incetta di premi nel 2021) un'opera fortemente costruita, che saccheggia dall'originale i momenti più emozionanti senza temere di commuovere a oltranza. Un dramma sentimentale gratificante che non ha paura di esserlo, lodevole nel rifuggire facili pietismi ma non altrettanto abile nell'abbracciare la complessità del tema trattato, congelato com'è in uno sguardo troppo stretto, limitante e sorprendentemente convenzionale.