Speciale Ready Player One - Figli dello stesso Dio del gioco
Con Ready Player One Spielberg aggiorna il mito, facendo della cultura di massa un patrimonio condiviso di creazioni capaci di raccontare ancora tutto ciò di cui abbiamo bisogno.
Uno dei meriti più grandi di Ready Player One è di aver mostrato al mondo la tanto vituperata cultura di massa nella sua migliore accezione possibile. Massificata, massmedializzata, industrializzata, globalizzata, certo; eppure ancora cultura, patrimonio condiviso di opere, segni, riferimenti simbolici capaci di accomunarci, di raccoglierci attorno al fuoco dei racconti.
È il patrimonio culturale popolare (occidentale) della postmodernità mediale (gli anglofoni parlano non a caso di popular culture) che da un lato resiste, nonostante tutto, alla trivializzazione cui la sottopongono obsolete e reazionarie intellighenzie; dall’altro sopporta strenuamente la messa a mercato, la mercificazione e la manipolazione dei signori dell’industria culturale, dei markettari, degli aziendalisti. Dei vari Nolan Sorrento che, nella cultura di massa, vedono solo la massa, acritica e bulimica nel suo consumare, mera risorsa da amministrare.
Materializzando sullo schermo le nefaste previsioni di Adorno e Horkheimer, Steven Spielberg mostra una civiltà in cui l’individuo rischia di non partecipare all’evoluzione storica perché ridotto a spettatore passivo-attivo di mondi prefabbricati, infilato artatamente in tristi gabbie dove produrre o consumare esperienze private e isolanti di vita virtuale. Eppure, benché iperdigitalizzati, ipertrofizzati, brandizzati, monetizzati e via discorrendo, immagini e suoni degli ultimi quarant’anni – film, videogame, hit musicali – continuano ad esibire la loro natura di prodotti umani, ad assolvere al proprio statuto di mezzi di comunicazione. Sotto i pixel, le pelli sintetiche, i codici alfanumerici, gli oggetti mediali hanno un cuore fremente che sfrigola di messaggi, conservano “uova pasquali” che sono firma e anima di autori come Halliday, affidatisi all’informatica e al game design – come il regista con il cinema e il musicista con il suono – per parlare al mondo, col mondo.
Risalendo verso la sua sorgente umana, spogliandosi delle incrostazioni commercializzanti, il prodotto culturale massmediale ritorna artefatto per l’autore e oggetto culturale per il gamer. Impegnato proprio in virtù della sua conoscenza di quel mondo (Wade Watts è un gunter, un egg hunter, cercatore di tesori nascosti, delle cose più care e preziose) a ricostruire il senso originale del creare. Riunendo in questa sua ricerca, in questo gioco di cooperazione che è un enorme simulatore di realtà, tutti coloro che, resistendo alla riduzione a cliente, ritrovano se stessi e la propria comune matrice umana. Nel gioco la parabola si compie e la cultura popolare torna arte della prossimità.
Arte che poggia le basi su un nuovo folclore, nuovi mitologemi, nuove storie archetipiche che non provengono più dall’oralità del mito – né dalla scrittura letteraria – ma dall’intrattenimento audiovisivo di film, serie e videogame. Nuove narrazioni in cui rintracciare noi stessi, nuovi draghi da combattere (King Kong, il T-Rex, le corporation) e nuovi eroi da impersonare (a partire dall’autore di videogiochi, il gunter appunto). Per stare di nuovo assieme, per sentirci nuovamente “popolo universale” nel fluido elettrico d’una cultura popolare postmoderna, di un comune sentire filtrato necessariamente dalla produzione mediale. Riconoscendoci tutti figli d’uno stesso Creatore. Che ha una fissa per gli anni ’80, gli occhiali da nerd e la maglia di Space Invaders.