La strada dei Samouni
Cronaca e denuncia, indagine antropologica, sperimentazione formale e visiva: un’opera stratificata che ribadisce l’urgenza di uno sguardo lucido e coraggioso sul reale.
Periferia della città di Gaza, 2009. Un quartiere tranquillo, una famiglia di contadini, niente ribelli né soldati. Fino a quando i militari israeliani non danno inizio all’operazione “Piombo fuso”: nella strada dei Samouni arrivano i carri armati a sradicare ulivi centenari e a devastare i campi, mentre un gruppo di civili viene confinato in una casa che viene poi scientemente bombardata. Una vera e propria strage, muoiono in ventinove. Amal, una ragazzina, resta per tre giorni bloccata sotto le macerie, in mezzo ai cadaveri dei propri parenti, fino all’arrivo della croce rossa.
Un anno dopo, il regista Stefano Savona filmerà quel che resta di questo mondo devastato, offrendo ad Amal uno spazio per raccontarsi e raccontare. La bambina prenderà un bastone e traccerà un grande cerchio per terra: “qui c’era il sicomoro...” e così ha inizio la storia.
La strada dei Samouni è un film che sovrappone passato e presente, un prima e un dopo, le case e le macerie, il vuoto lasciato dai grandi alberi dove i bambini si arrampicavano. Adesso c’è un desolante spiazzo sterrato, infinite montagne di rottami (si può recuperare una pentola bruciata, ritrovare qualche mattonella intatta, una porta, una traccia di sangue), una grande tenda che funge da moschea, qualche ulivo stentato sfuggito alla furia cieca dei soldati. C’è perfino la voglia di ricominciare – “più loro sradicano, più io semino” – un’ostinazione potente e dolorosa ma sorprendentemente quasi priva di rancore.
Savona guarda le cose dall’interno, non teorizza, non commenta, non trae conclusioni, forse perché la realtà è così terribile che parla da sé. I morti che nella percezione comune subito diventano martiri – pianti e portati in trionfo con formule di rito - i partiti politici che cercano di strumentalizzare gli eventi, il bambino che da grande vuole unirsi ai ribelli per vendicare il padre, ucciso a bruciapelo sulla porta di casa, disarmato. La religione è un collante e uno scudo per una comunità che se non elaborasse i propri lutti in una dimensione sociale, pubblica e condivisa probabilmente sarebbe già andata alla deriva nella più totale follia. E invece, in un impeto vitalistico inspiegabile e commovente, persistono i tentativi di ricostruzione, e nuovi edifici vengono progettati accanto alle rovine – anche se il cemento scarseggia ed è carissimo – mentre i ragazzini, come fossero già adulti, difendono ostinatamente le terre dei padri che non ci sono più.
Al netto dell’indiscutibile valore intrinseco di un’operazione come questa, nella quale in ultimo i veri protagonisti sono appunto i bambini, l’importante film di Savona contiene in sé anche un piccolo gioiello, ovvero le splendide animazioni in bianco e nero di Simone Massi, visione fascinosa, fiaba che si insinua nel documento per raccontare il prima: il grande sicomoro, le corse nei campi, un pugno di olive scure nella mano, il terrazzo dello zio invaso dai colombi mentre si fanno progetti di futuri matrimoni, ma soprattutto il viso e i racconti del padre ora assente. E non viene in mente ipotesi migliore di questa per dare corpo e peso a quei segmenti cruciali di racconto dei quali, senza l’intervento di Massi, sarebbe rimasto solo l’eco e il ricordo angoscioso. Mentre le vivide immagini animate restituiscono i fatti allo spettatore in tutta la loro tragica concretezza, sfumandone sapientemente i confini nell’incubo (gli elefanti, gli uccelli) e accrescendone in questo modo l’impatto drammatico.
La strada dei Samouni è, in sintesi, esempio perfetto e mirabilmente riuscito delle tante, differenti valenze che il cinema può conciliare e includere in sé: cronaca, documento e testimonianza, indagine antropologica, ma al contempo racconto e affabulazione, riflessione e sperimentazione formale e linguistica e in ultimo necessario, urgente e doveroso atto politico.