‘'Storie di uomini e cavalli’’ e ‘’Rams’’, il rapporto tra uomo e natura nella gelida campagna islandese
Due opere aventi la stessa origine propongono realtà molto simili viste da due angolazioni diverse, per riflettere, ammirare e raccontare la controversa relazione tra uomo e natura.
In questo 2015 l’Italia ha avuto il privilegio e l’occasione abbastanza rara di accogliere nelle proprie sale l’uscita quasi contemporanea di ben due produzioni di origine islandese, Storie di uomini e cavalli di Benedikt Erlingsson e Rams di Grímur Háconarson.
Entrambi i film sono stati candidati dal proprio paese a far parte della cinquina finale in sfida per l’Oscar al Miglior Film Straniero, rispettivamente per il 2014 e il 2015, ma l’obiettivo è stato mancato da entrambe. Tuttavia ad accomunare i due lavori ci sono ben altre caratteristiche, punti di contatto tra opere comunque diverse tra loro ma che permettono di instaurare un discorso comune, un raffronto sulla controversa relazione tra uomo e natura.
Dal punto di vista anzitutto formale entrambi i film constano di una narrazione esigua e di dialoghi essenziali e ambedue ritraggono, avvalendosi di una fotografia particolarmente efficace, gli scenari della fredda natura islandese. In Rams l’esperienza del regista nell’ambito del documentario e il suo noto legame con il proprio paese gli consentono verosimilmente di mettere in scena in modo particolarmente efficace, rappresentandole al meglio, l’austerità e la rigidità dei suoi gelidi paesaggi.
Da dire comunque come anche nelle prerogative comuni le due opere differiscano non poco; in particolare è possibile osservare come nel film di Erlingsson i paesaggi siano più scenografici, i colori meno cupi e più brillanti. Ne è un esempio la bellissima veduta del cavallo che nuota con i monti innevati sullo sfondo.
Altresì, in entrambi i film, vi è una sorta di alternanza tra l’utilizzo di un registro drammatico e uno ironico, ma nel lavoro di Elingsson, l’uso dell’ironia e del sarcasmo ha un peso maggiore, un’ironia piuttosto amara, che prevale sul trasporto emotivo contenuto, peraltro garantito dalla presenza di alcune scene particolarmente drammatiche. Al contrario, nonostante sia percepibile l’umorismo sarcastico tipico dei paesi nordici, Rams dà molto più spazio all’emotività e alla drammaticità.
Tutte e due le opere vedono inscenata la realtà quotidiana di piccolissime comunità che vivono in stretta comunione con gli animali, i quali assumono un ruolo centrale nella vita dei loro abitanti, con la differenza che nel caso di Rams sono i colori pallidi, la nebbia e l’atmosfera rigida di una valle desolata, e in particolare, lo scorcio che ci consente di affacciarci sul tratto che ospita due abitazioni adiacenti, a fare da sfondo al racconto delicato della tenera storia di due fratelli che abitano da sempre insieme all’animale che rappresenta il loro tesoro più prezioso, il montone, mentre in Storie di uomini e cavalli è il cavallo a essere protagonista della scena insieme al suo padrone.
Il termine padrone è utilizzato non a caso, poiché la peculiarità che rende più differenti i due film risiede soprattutto in come viene trasmessa l’essenza della relazione tra l’uomo e la creatura con la quale convive.
Creatura che in entrambi i casi vive un legame molto stretto, praticamente simbiotico, con l’uomo, un’interdipendenza costante e palese che riconosciamo nei gesti affettuosi che gli umani hanno nei confronti di questi animali, nel fatto che parlano con loro, che gli attribuiscono dei nomi e dei vezzeggiativi, che gioiscono, si commuovono o piangono nell’interazione con essi o in reazione a eventi che li riguardano.
In Storie di uomini e cavalli soprattutto viene molto più marcato, in un modo anche disturbante, il fatto che la relazione tra uomo e animale sia un rapporto di totale subordinazione, il che teoricamente non dovrebbe né stupire, né infastidire più di tanto, giacché è un diritto che l’uomo si è sempre arrogato e dal quale in concreto, ognuno di noi trae più o meno beneficio, ma forse proprio perché il legame è così intenso e certamente grazie a una a messa in scena che ci consente di osservarlo da vicino e quasi toccarlo con mano, si percepisce in modo chiaro una sorta di atmosfera di disagio, relativa al fatto che per quanto vi sia una convivenza e per quanto questa possa diventare affettiva, l’animale sia essenzialmente impiegato a uso e consumo dell’uomo sulla base dei propri scopi. Ed è particolarmente efficace la comunicazione del conflitto insito in questa condizione, che è percepita contemporaneamente come colpevole ma non sempre biasimabile.
D’altro canto domina in Rams una certa vena fiabesca che orienta anche la rappresentazione della relazione tra uomo e animale verso una maggiore armonia, ed è possibile riconoscere chiaramente il fatto che entrambi facciano parte di una stessa natura, magari non alla pari, ma che comunque ci sia uno scambio reciproco dal quale entrambi traggono vantaggi, affetto, appagamento. L’uomo diventa (o per meglio dire rivela) e vive la sua condizione di animale come gli altri, sia quando è superiore e prevarica, sia quando non lo è, ma sembra che tutto accada in un sistema di equilibri reciproci nel quale ognuno ha il suo ruolo, il suo valore, in cui gli spetta la sua parte nella scena.
Non è l’uomo il protagonista, non è lui a dipingere, ma è uno dei colori che contribuiscono a comporre il quadro. Quadro di una natura che è parte integrante della vita di un individuo, che è talmente fondamentale nella sua esistenza da rappresentarne il sostentamento, l’affetto, la compagnia e anche la rovina o la morte, nel momento in cui gli diventa ostile.
Un’appartenenza reciproca, nella quale a sua volta l’uomo si inserisce e si integra in un mondo di cui è componente, diventando parte di un ambiente apparentemente ostico che nel momento in cui viene vissuto va a costituire un tutt’uno con lui.
Storie di uomini e cavalli invece porta a livelli ben più forti la prevaricazione dell’uomo sul compagno equino.
Nonostante il regista sia stato molto attento a precisare che nel film non si sia verificato alcun maltrattamento ai danni degli animali e che la maggior parte dei partecipanti fossero proprietari e amanti dei cavalli, nella rappresentazione mette più volte l’accento su come questi subiscano totalmente l’azione dei loro padroni umani, dei quali percepiamo fortemente l’egocentrismo, e lo fa soffermandosi su tante situazioni che costringono lo spettatore a fare i conti con la consapevolezza di quanto, l’essere dotati di intelletto e di cosiddette capacità cognitive superiori, ci dia enormi vantaggi ma ci renda fondamentalmente dei grandi egoisti.
Erlingsson è molto abile a far risaltare questo aspetto, anche soltanto nel focalizzarsi con particolare accuratezza sulle modalità ingannevoli con le quali i cavalli vengono addomesticati o sul momento in cui viene recintato lo spazio che li circonda mentre hanno l’illusione di essere liberi.
E ancora, farli nuotare nell’acqua gelida per soddisfare uno sfizio, o persino il semplice cavalcarli, in quest’opera appare in qualche modo egoistico; dalla visione di quella bellissima abitudine che normalmente appare così sana e liberatoria per entrambi i mammiferi qui emerge un senso di costrizione, di prepotenza, che si avverte quando ci si rende conto che questi animali non possono scegliere nemmeno a che velocità correre. Che poi, effettivamente, viene un po’ da chiedersi come reagiremmo noi esseri umani se qualcuno decidesse per noi, la direzione e l’andatura del nostro passo.
Il tutto culmina nella scena più struggente, in cui dopo che ci hanno accompagnati, portati in groppa fino allo stremo, protetti, per quanto non senza sofferenza, è legittimo sacrificarli pur di salvarci la vita.
Così il regista trova un modo incredibilmente suggestivo di esaltare il concetto di un animale che subisce la propria vita in funzione di chi lo possiede, mostrando l’immagine atroce di quello che visivamente può dare l’idea stridente del parto di un uomo da una cavalla morta, in cui la totale prevaricazione della vita dell’uno su quella dell’altra colpisce in tutta la sua crudeltà.
Insomma l’uomo non esce molto bene dal racconto di Erlingsson, se ne trae l’immagine di un essere piuttosto egoista, ma anche ottuso, quasi a sbeffeggiare che tutte quelle facoltà intellettive superiori, alla fin fine, così superiori non sono e non siamo nemmeno in grado di usarle. Quello che si viene a creare è così un contrasto tra una natura maestosa e potente e un’umanità piccola, limitata e non sempre degna di esserne parte integrante.
Diverso il legale assunto in Rams, dove la cura nelle riprese dei paesaggi, la scelta della luce, i dialoghi scarni e ridotti all’osso, i tempi dilatati, ricordano notevolmente lo stile del documentario, tanto da consentire l’accostamento, per alcuni aspetti, a un’opera meravigliosa come Happy People – A Year in The Taiga di Herzog e Dimitry Vasyukov, che in comune con il film di Háconarson ha la rappresentazione di una natura abitata da uomini soli che vivono con il supporto di pochi mezzi tecnologici elementari e datati, ma soprattutto quella di una realtà nella quale la solitudine ha un ruolo centrale nella vita dell’individuo, una condizione che non è percepita come una prerogativa negativa, o quantomeno è accettata e vissuta come qualcosa di naturale.
E allora, non solo viene tollerata e non più temuta, ma diventa un valore, e ci sembra quasi normale vedere un uomo di sessant’anni o giù di lì, totalmente da solo, vestirsi a festa e organizzarsi con cura un Natale fatto di un pasto speciale, due candele, una lattina di birra e un pacchetto auto-confezionato, scartato sotto un alberello artigianale ma luminoso e caldo, ed esserne soddisfatto, vederlo canticchiare di buonumore mentre lo trascorre così.
O vederlo gratificarsi come un bimbo nel guardare accoppiarsi le sue pecore, vedere la sua angoscia quando le scopre malate, commuoversi e disperarsi quando è costretto a vederle morire, comunicare per quarant’anni con suo fratello senza esprimere una parola, attraverso lo scambio di bigliettini portati da un cane condiviso.
Questi uomini traggono vera e propria gioia dal vivere in questo modo, si stabilisce tra loro e la natura un rapporto incredibilmente profondo che dà la netta impressione di infondere forza e conferire dignità a entrambi.
In conclusione quelle di Storie di uomini e cavalli e Rams sono due modalità totalmente diverse di osservare e descrivere una stessa Islanda, approcci diversi per due opere apparentemente simili e che ci consentono di constatare come il relazionarsi tra uomo e natura non sia per niente scontato e univoco ma che possa assumere forme e caratteri molto diversi.
Due modalità che sono entrambe efficaci e ci regalano due piccoli squarci di vita, forse poi non così lontana dalla nostra.