Tangerine
Con un I-phone al Sundance, Tangerine racconta il fascino decadente dei marciapiedi di LA alla vigilia di Natale, fra la voglia di vendetta e il bisogno di perdono
Quando Sin-Dee (Kitana Kikki Rodriguez), una prostituta transessuale, esce di prigione dopo 28 giorni di detenzione ad aspettarla c’è una brutta sorpresa. Il suo fidanzato/pappone l’ha tradita con un’altra prostituta, per di più donna a tutti gli effetti. Senza battere le ciglia finte e lunghissime, questo gesto merita la dovuta vendetta. Sin-Dee (il cui nome sta per Cinderella) decide così di trascinare la sua migliore amica – Alexandra (Mya Taylor) anche lei trans e prostituta - su è giù per Los Angeles alla ricerca dei due colpevoli. Intanto un tassista armeno insoddisfatto della sua vita ordinaria e normale, in sella al suo taxi giallo cerca la sua quotidiana ebbrezza in un mondo stravagante e proibito.
E’ in questo vagare fra Boulevard, che Tangerine prende corpo e forma. Un corpo anomalo e misterioso, a volte ingombrante altre volte sorprendente; una forma comune e condivisa, perché anche nelle coppie più stranamente assortite un tradimento è sempre un gesto che scatena gelosia, talvolta aggressiva e violenta. Così muoversi fra le strade di LA può trasformarsi in un’esperienza forte e frastornate, come il film di Sean Baker, presentato al più recente Torino Film Festival e rivelazione della passata edizione del Sundance. Totalmente girato con un Iphone5s per le ristrettezze di budget ($100000), il film distribuito dalla Magnolia, ha riscosso un notevole successo di critica e premi. Una miscela di bellezza e sfregio, raffinatezza e brutalità. Tutto quello che di perverso o sporco può risiedere sui marciapiedi di LA, grazie all’occhio di Baker assume un tono dolce e disincantato, oggetto di uno sguardo leggero e smaliziato. Colpisce al cuore e allo stomaco, senza tralasciare gli occhi, spesso catturati da una fotografia innovativa, equilibrata, calda e lucente. Dobbiamo ricordarci continuamente che ad immortalare quelle scene sia stato un telefonino, lo stesso che usiamo quotidianamente con risultati piuttosto inferiori. Anche le orecchie sono appagate da una colonna sonora capace di sottolineare stati d’animo ed avvenimenti, regalandoci preziose chiavi di lettura quando le emozioni sono taciute e trapelano dai volti, urlate dagli occhi.
Con attori alle loro prime armi,Tangerine brilla anche per una perfetta interpretazione. Baker ha conosciuto le protagoniste del suo film proprio mentre girovagava per le vie di LA alla ricerca di un nuovo soggetto per il suo prossimo film. Un incontro, qualche battuta, una spiccata sensibilità, il racconto di un aneddoto, e Tangerine è venuto al mondo, necessario ed invadente, perfetto per colmare una lacuna che nessuno prima aveva osato riempire. Può essere considerato la versione solare del drammatico Heaven knows what, rivelazione indipendente del 2014, anch’esso nato su marciapiedi (questa volta di New York) ed interpretato dagli stessi ragazzi che sui marciapiedi di Manhattan vivono ogni giorno scambiando dollari con droga.
Tangerine si snoda fra gli incroci di Santa Monica Boulevard e Highland Avenue, corre sul Sunset Boulevard, verso un tramonto che coincide con la sera della vigilia di Natale, quando LA mostra il suo profilo più autentico, quindi fittizio e superficiale; quando la città vestita a festa non riesce a reprimere l’odore di vomito e solitudine nauseante. Come dice uno dei personaggi, “Los Angeles è una bellissima bugia confezionata” (“A beautiful wrapped lie”), dove sotto il luccichio della collina di Hollywood, si cela il marcio e la disperazione. Il film si avvolge su queste strade, in un movimento che è una coazione a ripetere, un girovagare inerme e ripetitivo come quello di un taxi alla ricerca di nuovi clienti. Ci si trascina, cercando un senso ad una vita sfortunata, spinti dalla rabbia o dal dolore, dalla solitudine o dalla fame. Sono tutte vittime e carnefici della propria condizione incapaci di reagire, né di liberarsi dai vizi, o di mostrare le proprie virtù. Anime dannate appartenenti ad un girone dantesco moderno, dove la sessualità ha perso ogni riferimento, per scatenarsi spontanea e selvaggia, senza divieti o limitazioni, libera di essere e di apparire così come vuole. Ma, in questo luogo di condanna c’è ancora spazio per la dolcezza e il perdono, per gesti simbolici e rivoluzionari. Rivoluzionaria è la normalità alla quale si aspira o ci si aggrappa, che sfugge proprio quando sembra raggiungibile, come un trofeo che continua a scappare di mano. Mya Taylor potrebbe entrare fra le nomination come miglior attrice non protagonista per i prossimi Oscar 2016. A sostenerla è scesa in campo anche la famosa Caytlin Jenner, idolo e simbolo di tutto il mondo LGBT statunitense, per trasformare il film in un movimento, poiché mai una donna trans è stata nominata per vincere la statuetta. Chissà se nell’anno di Carol e The Danish Girl questo trofeo non diventi sorprendentemente raggiungibile, e possa alzarsi fiero fra le belle mani della signora Taylor.