Taranta on the Road
Al dolore delle migrazioni e alla precarietà di certi sogni, Salvatore Allocca risponde con un road movie colmo di speranze
Amira e Tarek, due tunisini appena sbarcati in Puglia sull’onda della primavera araba, e Giovanni, Luca e Matteo, alias Gli Evangelisti, band salentina di (quasi) quarantenni che sogna il botto ma ancora s’arrangia tra sagre di paese e matrimoni di provincia, hanno qualcosa in comune. Vivono, tutti loro, anche se a stadi diversi, la scarnificazione esistenziale di un “abitare magro” (come cantava il grande Gianmaria Testa a ricordo delle nostre dolorose emigrazioni); una malattia ad eziologia endogena (la crisi, le guerre, la povertà) che, se non trattata, insieme ai soldi prosciuga sogni, desideri, identità e sentimenti. Una precarietà nevrotica che si fa fuga ansiosa (per i profughi) o ansia di fuga (per i “giovani” pugliesi), verso un altrove dalle rinunce certe e dalle vaghe speranze.
I protagonisti di Taranta on the Road, lungometraggio diretto dal regista Salvatore Allocca, presentato in anteprima mondiale al Bif&st 2017 e poi in apertura all’Étranger Film Festival di Gioia del Colle, sono tutti in fuga da qualcuno o da qualcosa. Amira scappa per autodeterminare il proprio futuro, lontano da una famiglia ortodossa e maschilista; Tarek per avviare una start-up di cibo gourmet d’asporto a Londra; Luca sfugge a sé stesso e alla salumeria di famiglia, Matteo all’ombra del grande musicista che è stato suo padre. Eppure in questo vagabondaggio, che diventa metafora di uno sghembo percorso identitario, ci si ritrova insieme, uniti nell’incertezza e nella paura del futuro; improvvisamente meno soli, contagiati dai sorrisi e dai guizzi d’umanità che ancora resistono tremolanti, sottopelle. E se ciò non dovesse bastare, se non bastasse l’umana compagnia e compartecipazione, se l’isteria convulsiva del nostro destreggiarci nel mondo – il tarantismo che i morsi del malessere psicosociale e della bancarotta dei sentimenti finiscono per infliggerci – prendesse il sopravvento, resterebbe comunque una vibrazione, una pizzica, ad esorcizzare i nostri mali.
È proprio quanto accade ad Amira, finalmente libera di sentirsi donna nella fluidità estatica del ballo dei tarantolati, svincolata così dall’estremismo discriminatorio evocato da Tarek, esorcizzata dai mali fumosi di un fanatismo che continua a rincorrerla e a dirle chi, o cosa, dovrebbe diventare. Di lì in poi, il film, che nella prima parte non aveva disdegnato tinte più cupe, senza mai uscire tuttavia dal solco della commedia, sembra prendere aria a pieni polmoni: i personaggi, un po’ ingessati nelle prime fasi, assumono maggiore consistenza, la scrittura si fa più brillante, i ritmi e la comicità più serrati e convincenti. È come se la pizzica a cui si abbandona Amira riuscisse a dare una scossa a tutti i protagonisti, e con loro all’intero mondo filmico in cui risiedono. Per Tarek, in particolare – certamente il più restio a mostrar di sé la parte migliore – la musica, l’amicizia, il viaggio, divengono viatici per il cambiamento, per riconoscere l’importanza dell’amore. Come nella migliore tradizione del road movie, ognuno arriverà a destinazione diverso rispetto a come è partito. Non è un caso allora che Allocca guardi con nostalgico amore cinefilo ad un classico come Accadde una notte (1934) di Frank Capra, prototipo senza tempo dei film di viaggio. Come Clarke Gable e Claudette Colbert, Amira e Tarek devono fingere di essere marito e moglie (una indigestione poi diventa gravidanza) e condividere esperienze che li faranno progressivamente avvicinare e conoscere, nonostante equivoci e ritrosie. Cadranno, anche qui, le mura di Gerico (cui il regista dedica un fedelissimo omaggio) del film di Capra?