A tempo debito
Il cinema in carcere come tentativo, vincente, di abbattere le barriere tra interno ed esterno
E’ possibile che un detenuto voglia rinunciare alla tanto desiderata ora d’aria – al vento, al sole, alla percezione di un “fuori” che gli è costantemente negato - per il cinema? E’ questo che, sorprendentemente, accade alla Casa Circondariale di Padova quando nell’ottobre 2013 il regista Christian Cinetto propone appunto un corso di cinema, che prevede la realizzazione finale di un cortometraggio: contrariamente alle aspettative, sono in molti a candidarsi per il progetto, e il regista sarà quindi costretto a un’ardua selezione. Saranno in quindici infine, tra uomini e ragazzi, a partecipare - mettendo da parte reciproche diffidenze, tensioni e timidezze - lasciandosi catturare dal gioco del cinema che, come afferma uno di loro, “ci fa uscire almeno un po’ di galera”. Rinunciando a quella preziosissima passeggiata nel cortile, persone di nazionalità diverse - Italia, Tunisia, Marocco, Nigeria, Albania, Moldavia – si chiuderanno in una stanza per imparare non solo come realizzare un cortometraggio, ma soprattutto come manifestare e condividere i propri pensieri e sentimenti, con le parole scritte, con la voce, con il corpo. A tempo debito è il racconto di questa ricchissima esperienza, il back stage del corto che i detenuti hanno realizzato con il regista, la storia della sua lunga e paziente lavorazione.
Cinetto, già insegnante di cinema presso scuole e università, si avvicina con grande tatto ai suoi “attori”, riuscendo a creare, con impegno, sollecitudine e umiltà, un’atmosfera stimolante e serena nella quale aprirsi e “raccontarsi” non solo agli altri, ma anche a tu per tu con la telecamera. Se il regista ha insegnato ai partecipanti un modo diverso, certamente spontaneo e autentico, di stare assieme – senza tralasciare il cinema “puro” che entra in aula con Al Pacino e i fratelli Coen – il film insegna forse ancora di più agli spettatori: descrive e mostra, dall’interno, quel sentimento angosciante e doloroso della privazione che i detenuti conoscono e affrontano quotidianamente e che tutti gli altri possono soltanto immaginare in maniera assolutamente parziale e vaga.
Consapevole dell’estrema importanza di ciò che gli viene offerto dai partecipanti – l’unico breve lasso di tempo davvero “libero” che possiedono – il regista, e con lui gli spettatori del film, diventano anche un orecchio pronto ad ascoltare cose che queste persone tendono per lo più a non esternare, quando non a censurare. Tutti in attesa di giudizio, bloccati e sospesi in una quotidianità soffocante e monotona in cui si alternano speranza e disillusione, questi uomini si rivelano attraverso le loro storie: i viaggi disperati per raggiungere l’Europa, l’angoscia per i familiari dei quali non sanno più nulla, la tristezza di non poter stare vicino ai propri figli. E, ancora, inevitabilmente, il rimpianto per non aver preso una strada diversa, più giusta, più onesta, e la triste consapevolezza che il carcere è, soprattutto per lo sguardo degli altri, un marchio indelebile, che in questo senso non finirà mai di condizionare l’esistenza di chi lo ha vissuto.
Ma non solo: il carcere, che è quasi sempre un “carcere sovraffollato”, è anzitutto condivisione obbligatoria di uno spazio già esiguo, vicinanza imposta, in cui lo sforzo quotidiano non è solo quello di ubbidire a rigide regole, ma anche quello di mantenere prima di tutto la calma e non lasciarsi sopraffare psicologicamente. Qui, dirà uno dei detenuti in un italiano approssimativo e tuttavia più che eloquente, ti trovi costretto assieme a persone con le quali non avresti mai immaginato di dover vivere; qui non vali niente, qui, anche se hai ragione, hai sempre torto, e quindi devi avere pazienza e sangue freddo.
Allora, resta solo l’immaginazione, come racconta ridendo un altro detenuto: prendere un foglio e sognare, scrivendo un’ideale lista della spesa, dove ognuno propone la pietanza che vorrebbe mangiare. E in fondo, se si è affamati di sogno perché si è imprigionati - e in questo caso non metaforicamente - non c’è migliore risposta che il cinema, che da sempre è evasione, fuga, altrove.