Tesnota - Closeness
Il giovane Kantemir Balagov concepisce il suo film come un turbinio emotivo, un indimenticabile ritratto di donna inebriato da un'indomabile sete di libertà.
Quando un film è un spazio da attraversare, fisico e tangibile, il volto umano si fa paesaggio emotivo, idea di affezione, ricerca incessante di una fuga. Tesnota - Closeness di Kantemir Balagov, sorprendente regista ventiseienne allievo di Aleksandr Sokurov, è un ritratto di donna inebriato da un’indomabile sete di libertà. L’anelito di emancipazione della giovane Ilana è un dardo infuocato che fende costantemente il 4:3 del formato: anima il film, lo riscalda, ne è il suo movimento avvolgente, la sua luce naturale.
Siamo nel 1998 a Nalchik, la capitale della Repubblica Autonoma di Kabardino-Balkaria. Nei pochi anni di quiete fra la prima e la seconda guerra cecena, le strade della città sembrano ancora quelle di un decennio prima, con lo spettro dell’Unione Sovietica che si aggira tra i palazzi.
Ilana ha ventiquattro anni, appartiene a una famiglia ebrea. Fin dall’inizio incarna l’eroina di Balagov: energica, ribelle, ragazza selvaggia che tenta, in ogni modo, di scavalcare il suo mondo. Assetata d’amore, contro qualsiasi sistema coercitivo o logica da tribù, Ilana lavora come meccanica per l’officina del padre, veste alla stregua di un maschiaccio con un maglione stropicciato e i soliti jeans. Testarda ed euforica, ha una relazione segreta con un ragazzo cobardo. Al contrario del fratello minore, non le importa di sposarsi o di rispettare le norme (anche esteriori) della vita ebraica.
La notte è la sua linfa vitale: Ilana beve, balla, fuma, alla ricerca di qualcosa che possa salvarla dalla closeness del titolo. Riassapora la vita e la sua fresca, irresistibile fragranza. Poi qualcosa cambia per sempre: suo fratello viene rapito insieme alla compagna. I genitori di Ilana tenteranno con poca fortuna di trovare i soldi per il riscatto in seno alla comunità ebraica. Pur di salvarlo, saranno disposti a perdere tutto, perfino l’amore di loro figlia.
Balagov rifugge clamorosamente qualsiasi moda registica o sguardo comodo: il suo film contiene tutto il furore, tutto il desiderio di leggerezza di una giovane donna, senza cedere alle lusinghe del pedinamento. La macchina da presa sembra vibrare anche nei piani statici: rifiuta di porsi alle spalle ma guarda faccia a faccia, inquadra il volto, gli occhi vispi, la pelle chiara. Trova la scintilla senza cercare l’effetto. Non invade ma rispetta i suoi protagonisti (come nella bellissima sequenza di sesso), non afferma ma sa guardare (basti pensare al rapporto che Ilana instaura con ogni spazio che si trova a percorrere). Sente i suoi personaggi senza avere il bisogno di enfatizzarli, di catalogarli o, peggio, di giudicarli. Lavora sulla distanza ma non si fa mai freddo come tanto, troppo cinema europeo: il racconto di formazione è il cuore pulsante di un’intera epoca.
A contare qui sono i singoli gesti, il modo in cui Ilana si accosta agli altri personaggi: pensiamo all’infinita, commovente sequela di sguardi bloccati, pensiamo a tutta la straziante prossemica del rapporto con la madre. Closeness, difatti, è un film di abbracci negati o traditi che urlano al mondo tutto il loro incessante bisogno d’amore. Sembra di poterla toccare Ilana perché, per tutto il film, Balagov lavora su una radicale idea di protensione: le inquadrature strette ci fanno sentire insieme spettatori e parte del quadro, vicini e distanti, caduti nelle immagini e un attimo dopo fuori di esse.
Ilana cerca l’amore ovunque ma non riesce a trovarlo da nessuna parte: può guardare la città dall’alto, può abitare tra i suoi cari, può conoscere il sesso e il dolore, ma c’è sempre qualcosa che manca. La sua vorrebbe essere una fuga senza fine: Balagov non le permette di urlare, ma a un certo punto inquadra le vene tese, tiratissime del collo che sembrano sul punto di strapparsi come corde di violino. Tutto è fino all’ultimo respiro: nella sequenza dell’addio che chiude il film Ilana ha la voce spezzata, come se avesse dato tutto e, svuotata, fosse cresciuta in una notte.
La figura dolente della madre, dal canto suo, non può accettare che il mondo sia cambiato, non può permettere che la famiglia si divida. E allora si fa rigida e austera: il suo amore si trasforma in potere, la sua cura in imposizione materna. Eppure, alla fine, il volto della donna non riesce a tradire le lacrime: un vuoto incredibile le è piombato addosso. Abbraccia la figlia per poterla di nuovo sentire ma sa che ormai non le è rimasto più nessuno da amare. In quel finale straziante e meraviglioso c’è l’addio a un intero mondo e a un intero modo di sentire: il richiamo della natura, il suono della cascata, l’acqua battesimale che fa presagire, vedere un altro tempo. Così come una visione oscura e funesta è quella del conflitto ceceno relegato su uno schermo del televisore: immagini oscene di uccisioni registrate in vhs, con uno schermo a elargire la distanza, e dei volti – quelli dei personaggi del film e, di riflesso, i nostri– che non riescono a fare a meno di guardare.
Di fronte all’intensità di questo sguardo, rimaniamo affascinati dalla nascita di un nuovo, umanissimo autore. Kantemir Balagov, infatti, lascia che il suo film sia un turbinio emotivo: Ilana è il mare in tempesta, il centro del vortice, l’impeto furente e vivissimo di una gioventù cresciuta troppo in fretta. E l’attrice che la interpreta, Darya Zhovner, restituisce tutta la carne, tutta la fragilità, tutta la tenacia di un personaggio indimenticabile.